mercoledì 2 dicembre 2015
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Schiavi nell’Europa del XIX secolo. Fino alla metà dell’800 non c’era bisogno di arrivare nei campi di cotone degli Stati Uniti del Sud, né nelle colonie africane di Francia o Regno Unito. Perché a un migliaio di chilometri a Est dal-l’Italia, nelle regioni dell’ex Valacchia e della Moldavia – l’attuale Romania – la schiavitù era pratica diffusa, consolidata, legale. Vittime dello sfruttamento bestiale intere comunità rom. Nell’odierna Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù – il 2 dicembre 1949 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava la Convenzione per la soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione – vale la pena di sfogliare una pagina misconosciuta di storia europea. Se della tratta di schiavi dall’Africa verso le Americhe – iniziata secoli dopo e conclusa molto prima – se ne sono occupati storici, romanzieri, registi, la schiavitù dei rom in Europa è stata decisamente trascurata. I rom arrivano nell’attuale Romania e Ungheria attorno al XIV secolo dalla Turchia e dall’Armenia, in gruppi e comunità. Il loro destino è ben presto quello di diventare di “proprietà” del principe o dei nobili latifondisti. Risalgono già al 1385 le prime testimonianze di rom schiavi, costretti a lavorare i campi di alcuni monasteri. Vengono comprati, scambiati, donati come regali di nozze. Acquistare lo schiavo comporta l’acquisizione anche di moglie e figli. Gli uomini svolgono i lavori più pesanti, dall’aratura alla raccolta della legna, alle donne sono assegnati la coltivazione di campi e giardini, ai bambini i lavori artigianali. Una pratica che si perpetuerà per secoli. Come ricostruisce Leonardo Piasere, antropologo dell’Università di Verona, nel suo La stirpe di Cus, nel 1780 il monastero di Secu, in Moldavia, ad esempio, possiede 165 salase , cioè famiglie di rom. Schiavi che provengono da donazioni di principi e boiari, offerti addirittura «per il perdono dei peccati» o «per la commemorazione dei defunti». Qui i rom hanno l’obbligo di lavorare una settimana ogni tre per il monastero, le altre per il loro sostentamento.  E ci sono regolamenti più duri: nel monastero di Strimba, in Valacchia, tre giorni di lavoro forzato e tre giorni per se stessi. Qualcuno prova a fuggire: in Bulgaria, oltre il Danubio. Chi viene catturato subisce varie punizioni: bastonatura sotto le piante dei piedi, ceppi a polsi, collo e caviglie, collare appesantito da pesanti corna. Alcuni vengono spediti in catene dal principe a Lasi, e condannati ai lavori forzati nelle saline, da dove non torna nessuno. «Gli zingari sono nati per essere schiavi – si legge all’inizio del 1800 nel Codice della Valacchia – e chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo». La storia dello schiavismo dei rom in Romania è, secondo Piasere, il «più grande, sistematico, controllato sistema schiavistico dell’Europa moderna ». Nel 1807 la Corona britannica abolisce la schiavitù nelle sue colonie. La Francia lo farà nel 1848. La Russia libererà i servi della gleba nel 1861. Negli Stati Uniti avverrà nel 1865, dopo la Guerra civile. Moldavia e Valacchia resistono fino al 1855 quando il principe Grigore Ghica sancisce l’emancipazione degli ultimi schiavi rom di Moldavia. L’8 febbraio 1856 il principe di Stirbei emana la legge per l’emancipazione di tutti gli zingari del Principato romeno. Lo Stato pagherà un indennizzo ai proprietari pari a 10 pezzi d’oro a schiavo. Dopo cinquecento anni di schiavitù, i rom romeni sono liberi. Chi può, emigra: alcuni in America, molti altri in Ungheria o Serbia. Carlo Stasolla è il presidente dell’Associazione 21 luglio, onlus molto attiva nella promozione dei diritti dei rom in Italia: «Poco prima della guerra nell’ex Jugoslavia – racconta – molti di quei rom fuggirono dalla Serbia per arrivare da noi in IS talia. Sono quelli che gli altri rom ancora oggi chiamano romùni , cioè “i romeni”, a sottolineare l’origine di queste comunità serbe. Ce ne sono a Roma, a Torino, in Sardegna». Quella della schiavitù dei rom in Romania, dice Stasolla, «è una storia sconosciuta di soprusi e deprivazioni. Come quella del porrajmos », il “grande divoramento”, termine in romanì per definire lo sterminio di 500 mila rom e sinti nel lager nazisti. «Atrocità che la storia ricorda solo quando il vinto rivendica i torti subiti. Nessuno tra i rom – dice ancora il presidente della 21 luglio – ha saputo denunciare in maniera abbastanza forte queste tragedie, a differenza degli ebrei che hanno avuto una classe intellettuale in grado di condurre la battaglia per la memoria. Perché nella tradizione orale dei rom chi ha subito torti tende a rimuoverli. Per fortuna c’è stata l’opera di storici come Luca Bravi, che hanno svelato il genocidio dei rom in Italia, concentrati in 15 campi in cui molti sono morti di stenti». Molti degli stessi ebrei reduci dai lager, d’altronde, raccontano di come abbiamo deciso di tacere per anni perché, al loro ritorno, nessuno credeva ai loro racconti dell’orrore. Cinquecento anni di schiavitù. Poi lo sterminio nazista. «È un’eredità che pesa come un macigno e che tuttora crea diffidenza e sfiducia verso le istituzioni. Quando ci approcciamo a loro – spiega Stasolla – dobbiamo sapere che abbiamo a che fare con persone profondamente ferite, che hanno una rabbia inespressa ». Una storia secolare di soprusi che ha scavato un fossato tra rom e gagé. «Siamo noi – che abbiamo gli strumenti culturali, il dovere, la responsabilità – a dover colmare questa distanza ». Impresa impossibile? «Sicuramente è più facile accusare i rom, bollarli tutti come ladri. La verità è che la stragrande maggioranza dei rom è inclusa, ma si nasconde per evitare l’emarginazione. Lo sa che nel profondo Nord leghista ci sono intere comunità di rom kosovari perfettamente integrate? Operai, imprenditori, impiegati. Mantengono le loro tradizioni nel chiuso delle case. Ma nascondono di essere rom. Ora i loro figli li stanno rinnegando. E questi genitori sono a un bivio: rifiutare la loro identità o uscire allo scoperto? Che prezzo dovrebbero pagare? La perdita del lavoro o altro?».
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