domenica 18 settembre 2016
Marc Augè, rivincere il mito infelice
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 Amare lo sport e le emozioni che suscita significa, anzitutto, fare un’esperienza intensa del tempo. Ci sono il tempo sociale, le stagioni ufficiali, i periodi dei grandi match. Più si organizza e si professionalizza, più lo sport si basa su una struttura socio-temporale, con il suo ritmo ordinario - settimanale per gli sport di squadra quando la stagione è aperta - e i suoi grandi momenti, che la società dei consumi, che è anche società dello spettacolo, tende oggi a moltiplicare (coppe, campionati e tornei continentali, coppe e campionati del mondo, Giochi Olimpici…). Ma c’è anche il tempo individuale, il tempo vissuto da tutti e da ciascuno, il tempo della competizione che, talvolta, dura soltanto pochi minuti, quando non pochi secondi - istanti sempre troppo brevi verso i quali sono rivolte l’attesa e l’attenzione di attori e spettatori.

La competizione stessa è strutturata temporalmente: due frazioni di gioco nel calcio e nel rugby; negli sport di squadra come il basket e la pallamano gli strateghi possono giocarsi l’utilizzo di «tempi morti» per spezzare il ritmo dell’avversario. Per gli spettatori, tale struttura temporale è costitutiva del piacere dell’attesa, talvolta della suspense insopportabile che li tiene col fiato sospeso. La performance solitaria dell’atleta, del ciclista o del tennista, rispetto ad altri sport, è anch’essa insediata nel tempo ma in maniera diversa, più diretta quando lotta contro il cronometro, più drammatica quando lotta contro un altro e contro la propria stessa stanchezza. La competizione è allora più totale, se così si può dire, nella misura in cui l’attore è completamente impegnato e visibilmente dipendente dalla forma e dall’età.

Lo spettatore, dal canto suo, è sensibile al lato “umano” della performance, magari affascinato dall’eventualità di una défaillance o di un sussulto del campione che sta invecchiando, di cui accompagna con lo sguardo le prestazioni. They never come back: quest’adagio si applicava ai pugili che avevano raggiunto la vetta e poi conosciuto una prima sconfitta. Mohammed Ali fu l’eccezione alla regola, ridiventando campione del mondo contro Foreman nel 1974. Il ritorno possiede una dimensione mitica su cui possono giocare gli organizzatori di spettacoli sportivi, poiché parla all’immaginazione di tutti come negazione della morte. I vecchi campioni per cui sono passati gli anni e aumentati i chili, al contrario, sembrano contraddire la leggenda. 

E un’aura particolare circonda chi è morto senza avere il tempo di invecchiare, come Fausto Coppi. La speranza del “come back”, del difficile ritorno, spunta con l’apparizione delle prime défaillance. Un tennista come Rafael Nadal è oggi l’esempio tipico di questa situazione: se vince nuovamente un torneo del Grande Slam sarà ancora più grande, per essere stato in grado di “tornare”. Perché la figura del ritorno esercita una tale presa sull’immaginazione degli uomini? Evidentemente, e in senso molto letterale, anzitutto perché si oppone al carattere fatale dell’età. Anche solo per una volta. Chi torna sorge dal fondo dell’ombra; in un attimo, possiamo vederlo in tutto lo splendore della sua gloria. 

Una volta fatta questa dimostrazione, potrà «rientrare nei ranghi», si sarà preso la rivincita sul destino. Il problema è che la rivincita su di sé passa attraverso la lotta contro l’altro, il quale si trova spesso nella medesima necessità di vincere. È l’aspetto crudele, e talvolta tragico, dello sport. E anche qui i produttori di spettacoli sportivi mostrano di avere colto alcune risorse dell’immaginazione umana, ma ne abusano: istituzionalizzando in alcuni sport di squadra la pratica del “match retour”, creano a ripetizione congiunture mitiche che rischiano di stancare gli aficionados più ferventi.

Tali configurazioni mitiche sembrano tuttavia ispirare il mondo che oggi più somiglia a quello dello sport-spettacolo: il mondo politico. […] L’idea della rivincita è comune tanto allo sport quanto alla politica. Rivincita su di sé e sugli altri. Oggi ritroviamo il suo gioco perverso tanto dietro le quinte dei regimi presidenziali quanto sul proscenio delle iniziative terroristiche. Sempre nefasta e pericolosa, la rivincita privilegia una rappresentazione del passato e una visione del futuro mitizzate, entrambe. Quando gli uomini ammetteranno che non c’è alcuna rivincita da prendersi, ma una vita da vivere, potranno indubbiamente cercare di essere felici. 

 © Consorzio per il FestivalFilosofia Traduzione dal francese di Michelina Borsari

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