domenica 10 gennaio 2016
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La crisi profonda che attraversa la società occidentale e quella, drammatica, che investe la società mondiale è radicale: nel senso che tocca le radici della convivenza umana. E tutto, paradossalmente, sembra aver origine, da un lato, nell’estenuazione del senso religioso come sorgente generatrice e sostentatrice dei valori etici e sociali e, dal-l’altro, nell’intolleranza e nella conflittualità risorgente tra le religioni (o, meglio, fra alcune loro espressioni). Parlare di valore civile del dialogo interreligioso, in realtà, significa non solo invitare le religioni a guardarsi in faccia, a deporre le armi della reciproca intolleranza, ad ascoltarsi e capirsi, ma anche pensare che ciò è possibile e praticabile e, più ancora, che da ciò può venire qualcosa di costruttivo, e forse persino di decisivo, per riannodare i legami in una società civile frammentata e spesso tragicamente lacerata. Da tempo si parla di «riconquista delle religioni ». Dopo l’11 settembre esse paiono aver ripreso ad occupare la scena del mondo. Eppure mai come oggi il secolarismo è diventato pervasivo. La sfida, dunque, sta nel cogliere la relazione tra questi due dati contrastanti: il fondamentalismo e il secolarismo.  Il fondamentalismo, mentre rischia di giustificare ideologicamente la proiezione del proprio sé sull’immagine del Divino, nasce nel nostro tempo dalla sindrome di autodifesa della propria identità religiosa su due fronti: quello del processo di modernizzazione delle società tradizionali, col restringimento progressivo della capacità d’influenza del fatto religioso nella configurazione dell’esistenza; e quello dell’imporsi, nell’orizzonte della mondializzazione, del pluralismo e, con ciò, del confronto e dell’antagonismo ravvicinato tra le differenti identità religiose. Nelle religioni, e in quelle abramitiche in forma peculiare, l’uomo è infatti chiamato a riconoscere Dio come orizzonte della sua libertà e della verità del suo destino, e ciò a partire dal riconoscimento che Dio stesso irrevocabilmente ha fatto della dignità e del destino dell’uomo, di ogni uomo. Da qui la vocazione al riconoscimento dell’altro, chiunque egli sia. Non dico che, storica- mente, le religioni l’abbiano sempre fatto. Senza dubbio hanno esercitato il riconoscimento dell’altro (il prossimo, il povero) a livello personale; non altrettanto hanno fatto, spesso, in riferimento al diverso da sé culturalmente e religiosamente inteso. Ma nelle loro viscere portano questa vocazione, che diventa oggi indispensabile e profetica. Detto in termini laici, quelli presenti nel motto della Rivoluzione francese, occorre oggi riscoprire, insieme all’ideale della libertà e dell’eguaglianza, la valenza civile della fraternità. Solo chi si riconosce fratello può riconoscere piena libertà, nella comune dignità, e vera uguaglianza, nella solidale giustizia, all’altro. La sfida coagulante diventa allora quella di rendere attiva, operante, generatrice questa ispirazione antropologica e sociale. È qui che si giocano l’identità e la presenza delle comunità religiose nella società civile. Esse sono chiamate a proporsi laicamente e con stile pluralistico quale soggetto propositivo e aperto di questa ispirazione. Abbiamo vissuto e stiamo tuttora vivendo dei momenti gravissimi, delle tragedie umane che solo l’assuefazione indotta da mezzi di comunicazione conniventi hanno stemperato, agli occhi di tanti, nella loro crudezza e nelle minacce che portano con sé. Tutto ciò perdura. In tante parti del mondo. La conflittualità, col fenomeno del terrorismo e l’assurdo della guerra preventiva, ha fatto un salto di qualità. Occorre testimoniare che pure le religioni, a fatica, non senza contraddizioni, ma con decisione, vogliono farsi attori di un salto di qualità nella coscienza e nella prassi di pace, insieme ai molti altri attori e protagonisti di questo processo che tutti ci coinvolge.  Gli avvenimenti di cui siamo testimoni esigono infatti un cambio di paradigma. Non si può più ragionare — e lo dico a proposito dei singoli e dei gruppi, sia privati che pubblici — in modo parziale, unicamente dal proprio punto di vista, e nel contempo alternativo o contrappositivo. Bisogna pensare e agire a partire dall’unità della famiglia umana, nel riconoscimento dell’alterità del-l’altro, e dunque della pluralità arricchente degli attori della nostra storia comune. Questo cambio di prospettiva può essere realizzato solo grazie a un nuovo paradigma culturale, che di fatto può trovare la sua sorgente in una novità spirituale, in una nuova esperienza di Dio e del rapporto tra gli uomini: in ambito civile, in una nuova autocoscienza che l’uomo deve guadagnare di sé. Concretamente, tutto ciò può avvenire, mi sembra, in tre direzioni. La prima è quella che chiama le comunità religiose a portare uno specifico contributo alla definizione di una razionalità pubblica animata dalla fraternità, che non abbia solo l’obiettivo di garantire giustizia e libertà, ma anche le condizioni di rispetto e di promozione del senso, dell’altro, dell’unità. La seconda è tener desto e incrementare, nella società civile, la comunicazione e il dialogo tra le differenti visioni del mondo, religiose e laiche che siano. È a questo livello che si dà spazio alle questioni ultime circa il senso dell’esistenza, della storia, del bene e del male, e alle ispirazioni che le possono illuminare. Non nei termini di una semplice tolleranza o di un pluralismo tendenzialmente relativistico: ma di una reciproca apertura alla sollecitazione plurale e insieme convergente della verità e del bene. Occorre ripensare il significato, le dinamiche, i limiti della regolamentazione democratica della società: di fronte alle questioni della vita, della sua genesi e qualità, della salute e della malattia, del matrimonio e della famiglia, del lavoro, della fruizione attiva della cultura, della morte, e di fronte alle nuove frontiere della biotecnologia e dell’informatica. Di qui, infine, l’urgenza di creare luoghi e momenti di comunicazione e di dialogo aperti e liberi, dove le diverse ispirazioni possano esprimersi e incontrarsi, sulla base della piattaforma comune del riconoscimento reciproco e della fraternità. Il delicato passaggio storico che stiamo attraversando richiede l’esperienza e la teorizzazione di una «nuova laicità». Una laicità che non esprima la separatezza tra l’ambito civile e quello religioso, che non designi la parte non credente o neutra della società rispetto a quella credente, ma che esprima invece l’intera comunità civile come spazio di reciproco riconoscimento e come soggetto etico di responsabilità civile. Come scriveva Norberto Bobbio, lo spirito laico non è esso stesso una nuova cultura, ma la condizione per la convivenza di tutte le culture. La laicità esprime piuttosto un metodo che un contenuto. Oggi possiamo tutti renderci conto – come ha scritto Silvio Ferrari – che il fatto che la laicità si sia imposta in Europa al di fuori delle Chiese e spesso nonostante la loro opposizione, non toglie che essa affondi le sue radici nella distinzione tra religione e politica propria della tradizione ebraico-cristiana, che ha saputo anche far spazio – penso al grande Medioevo – alla tradizione islamica, in una dinamica di scambio arricchente. Penso sia questo il contributo che il dialogo tra le religioni può offrire alla crescita di una nuova, più ampia e da tutti condivisa laicità.
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