domenica 9 ottobre 2016
Ma che razza di uomo. Siamo tutti figli dell'Africa
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I due libri più importanti sulla questione della razza sotto il profilo storico- filosofico prodotti dal Novecento sono entrambi opera di Eric Voegelin ed entrambi videro la luce nel 1933. L’anno dice molto, se non tutto, ciò che corre in sottofondo a questi due studi. Il primo s’intitola Razza e Stato. Ma è il secondo, che Voegelin riteneva più importante, anche se meno attuale (credo dal punto di vista pratico, dati gli eventi di quell’anno fatale), s’intitola Razza. Storia di un’idea da Ray a Carus . Il libro è uscito anche in traduzione italiana una decina d’anni fa. Il sottotitolo apparentemente didascalico esprime implicitamente una convinzione di Voegelin: la storia di quell’idea dura circa un secolo e mezzo, dalla fine del XVII a metà del XIX secolo. Sembrerebbe un controsenso, dato che il razzismo come antropologia e prassi ricopre almeno un altro secolo (ma che dire di oggi? Dal che si potrebbe aggiungere: quasi altri due secoli) di intensa e drammatica centralità nella storia culturale e politica dell’Occidente. Ma Voegelin dice nell’introduzione di essersi fermato lì, perché il seguito storico ne rappresenta la più prosaica deriva: «Al di là di qualche eccezione la teoria della razza oggi partecipa di un pensiero inautentico sull’uomo», «L’idea di razza appare allo stato attuale in una fase di decadimento. Le immagini originarie si sono dissolte e la competenza tecnica nel definire concetti si è deteriorata».  Diffidando della teoria Voegelin nota che «il desiderio di trovare una 'spiegazione' del fenomeno insorge quando esso non è più visibile in sé, quando si diventa ciechi di fronte agli eventi di un dispiegarsi autonomo della sostanza vivente, quando cerchiamo dietro a questa legge evolutiva un’altra legge più plausibile». Per Voegelin non è necessaria a spiegare la trasformazione di una sostanza, ovvero a dimostrare che «esista una sostanza che prende una forma o che sia in grado di assumerne un’altra».Direi che tutte le scienze che studiano l’uomo oggi cercano di mettere fra parentesi la teoria per concentrarsi sul modo con cui le sostanze si trasformano o possono assumere forme differenti. Il genetista Guido Barbujani si è calato in questo universo e la questione della razza resta in sospensione in ogni capitolo del libro appena edito da Laterza col titolo sibillino: Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo (pp. 140, euro 15). In sostanza alla domanda se le razze esistono, la risposta da tempo ormai sembra ovvia, anche se non condivisa da tutti. No, non esistono. Esiste, se volessimo stare a Voegelin, una sostanza umana che assume forme differenti ma è uguale a se stessa nelle componenti fondamentali. E questo è il terreno su cui muovono i biologi e gli scienziati del genoma come anche i paleoantropologi. Dunque, le razze non esistono. O forse sì, ma non sono quel genere di cosa che s’intendeva un tempo per affermare la superiorità o l’inferiorità antropologica di una parte dell’umanità, e comunque sia siamo tutti uguali (geneticamente uguali) a partire da quella migrazione dall’Africa che avvenne attorno a 60.000 anni fa dando vita all’umanità che oggi popola il pianeta, la quale pur con la pigmentazione della pelle diversa, dettata da ragioni che possono essere di adattamento all’ambiente, di stile di vita, eccetera, è identica nella sostanza ai quattro angoli del pianeta. Questo, che sta scritto nelle verifiche condotte sul Dna e su altri aspetti della dimensione biologica dell’uomo (compresi i referti della paleontologia), è un dato di fatto: siamo tutti africani perché tutti proveniamo da quell’umanità che salendo dall’Africa incontrò Neandertal e ben presto ebbe la meglio su quel ceppo umano, del quale peraltro restano tracce nel materiale genetico di esseri umani di molto successivi (fino a individui oggi viventi). Ma non è questo il punto più interessante del saggio di Barbujani, divulgativo senza risultare banale e proprio perché insinua al fondo l’idea che se possiamo essere certi che tutti siamo uguali nella sostanza, appartenenti alla specie umana senza differenze fondamentali, d’altra parte diventa sempre più confuso e difficile da definire lo stesso concetto di razza e l’uso che se ne può fare senza diventare per così dire razzisti, come anche stabilire i momenti decisivi dei diversi sviluppi della specie umana fin dalle più remote origini. Più le scienze scendono in profondità; più si rendono sofisticate le tecnologie nel grado di avvicinamento alla verità materiale dell’evoluzione, più il quadro si complica rendendo nebulosi concetti che un tempo venivano usati con una certa disinvoltura. Si potrebbe pensare così che il termine razza, privato di connotazioni ideologiche, sia utilizzabile a partire dalla coscienza della parità di ogni individuo appartenente alla specie umana, non dunque per stabilire un grado di dignità o di superiorità ma al massimo per connotare gli elementi superficiali: l’abito cambia aspetto ma il corpo che riveste è lo stesso, si potrebbe dire. C’è da dire che quando si tirano in ballo le questioni razziali o l’eugenetica del primo Novecento, i pionieri non furono i nazisti, ma gli americani, la patria dei diritti individuali e della libertà. E il razzismo degli anni ’20 e ’30 non ha niente a che vedere con l’antisemitismo in senso stretto (francese o tedesco ovvero russo eccetera), né con l’ostilità che oggi si registra ogni giorno di più verso gli immigrati e chi non entra nei nostri parametri culturali o morali. Il razzismo nasce prima delle dittature o della tratta degli schiavi. Perché il diverso (che in senso positivo diventa l’'altro') è un concetto che viene dai più antichi retaggi tribali o delle comunità primitive, dove lo straniero è inteso come contaminatore e pericolo alla stabilità del gruppo (abbiamo già dimenticato la questione della pulizia etnica nelle guerre balcaniche?).  Eppure la storia dice che latinitas e barbaritas sono entrambi geni dell’Europa, dell’Europa che noi siamo oggi.  Straordinaria e immaginifica conclusione del discorso, è data dall’aneddoto che Barbujani riporta a proposito dell’Esposizione universale di Chicago del 1933 (ancora quell’anno!): in anticipo sulla data il Museo di Storia naturale della città incarica la scultrice Malvina Hoffman di realizzare alcune statue che rappresentino le razze umane. La signora non ci sta a dare la risposta scontata e per due anni viaggia per documentarsi, alla fine produce oltre cento sculture che per alcuni decenni rimarranno esposte nella Sala delle razze dell’umanità e poi saranno disperse. Chissà dove sono finite. Siccome ho un interesse specifico per l’arte, sto immaginando che effetto farebbe riunirle di nuovo tutte in una mostra. E chissà che sotto i nostri occhi non venisse alla luce la prova di quanto sostengono la maggior parte degli scienziati e studiosi di oggi (Barbujani incluso): ciò che nell’aspetto ci differenzia è soltanto conferma di una unità sostanziale che fiorisce in forme diverse. Forse avremmo la certezza che visti tutti insieme non siamo, poi, affatto male. Ma, in definitiva, il razzismo non è la trasformazione sostanziale di ciò che rappresenta solo una differenza superficiale?
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