domenica 28 dicembre 2014
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Negli Usa vi dedicano perfino un festival. A Roma, più accademicamente, un master. L’omelia «tira» e interessa, visto che solo in Italia se ne ascoltano 100 mila, con 7 milioni di uditori settimanali. Proprio per questo interesse la Pontificia Università della Santa Croce dedica un corso di approfondimento della durata di 2 mesi (dal 25 febbraio al 29 aprile 2015) al tema «Ars praedicandi. La retorica classica e la comunicazione moderna al servizio dell’evangelizzazione», con due moduli incentrati su «Fondamenti integrali della predicazione» e «Pratica della predicazione». Info su www.pusc.it. A maggio dell’anno prossimo invece, a Denver in Colorado si terrà la nuova edizione del Festival of Homiletics, organizzato dal Seminario luterano del Minnesota (l’anno scorso fu a Minneapolis): una settimana di conferenze e celebrazioni in cui «riunire predicatori di alto livello e docenti di omiletica per dar vita a un discorso pubblico sul predicare, il culto e la cultura». In stretto stile yankee, il Festival è a pagamento. Tra i relatori si segnala Walter Bruegemman, autore di vari testi biblici tradotti anche in italiano. Info su www.festivalofhomiletics.com. Premessa. Nessuna predica ai predicatori. Siamo solo 'scrivani' di quotidiani, non retori. Anche perché, nel caso, varrebbe – mutatis mutandis –  l’amara constatazione che ebbe a fare a suo tempo il teologo francese, prima negletto dalla gerarchia poi finanche nominato cardinale da Paolo VI, il domenicano (guarda caso, membro dell’Ordo Praedicatorum) Yves Congar: «Nonostante 30 mila prediche ogni domenica, in Francia c’è ancora la fede»...  Epperò. È indubbio che, visto che papa Francesco nel suo «programma di pontificato», l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, grande spazio dedica all’omelia, e che proprio nei giorni scorsi la Congregazione vaticana per il culto ha pubblicato un «Direttorio omiletico», significa pure che il paziente non gode di grande salute. Tutt’altro.  Devono aver pensato a qualcosa del genere anche i redattori della Rivista di teologia dell’evangelizzazione (pubblicata da Edb, rivistaditeologiadellevangelizzazione@ dehoniane.it), se buona parte dell’ultimo fascicolo (n. 36, luglio/dicembre 2014) l’hanno dedicato a riflettere su quella che volgarmente si chiama predica, liturgicamente omelia.  Il lettore sarà avido di curiosità: a Bologna hanno trovato gli ingredienti per l’omelia perfetta? O almeno il modo per renderla interessante (così da consegnarli di persona al proprio parroco)? Sant’Agostino non risolve lo spinoso quesito, ma aiuta. Guido Bendinelli, preside della Facoltà teologica nel capoluogo falsineo, ha scandagliato i 532 sermoni  al popolo del vescovo di Ippona e ha individuato tre caratteristiche per una buona omelia: insegnare, piacere, convincere. In questo Agostino si rifà a Cicerone: «Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto – e diceva la verità – che l’oratore deve parlare in modo da istruire, da piacere e da convincere. E aggiungeva: istruire è necessità, piacere, dolcezza; convincere, vittoria».  Per insegnare, il metodo fondamentale – evidenzia Agostino, ripreso da Bendinelli – «lo si deve fare mediante la narrazione perché la cosa di cui si tratta diventi palese». Ma decisivo e da perseguire è anche un uso sapiente della retorica: «È un fatto che con la retorica si può persuadere tanto il vero quanto il falso. Perché mai coloro che cercano di persuadere delle falsità dovrebbero rendersi l’utile o benevolo o attento e quegli altri non dovrebbero saperlo fare?». La provocazione agostiniana viene presa di petto da Chino Biscontin della Facoltà teologica di Padova, fine studioso di omiletica. Il quale identifica quattro tipologie di oratori: quello «orientato al copione»; l’«orientato a se stesso », quello «orientato ai contenuti» – modalità che egli giudica insufficienti e non adatte alla forza del messaggio evangelico. Invece «il predicatore orientato all’assemblea ha ben presente coloro che lo ascoltano, si sente posto al loro servizio». Come fare dunque una buona omelia? Partendo dal fondo, due le possibilità: Bruno Secondin, docente emerito di spiritualità alla Gregoriana di Roma, esemplifica in Benedetto XVI e Francesco due modalità diverse di predicare, ma complementari: «In Germania e in genere nei Paesi del Nord, l’omelia la si prepara scritta e la si legge, non si improvvisa. Nei Paesi mediterranei e nell’emisfero Sud non si legge, ma si parla liberamente».  Se quella di papa Ratzinger era un’omiletica più mistagogica, «si atteneva alle letture proclamate, ne coglieva alcuni aspetti importanti e riconduceva a unità», con Bergoglio (le cui prediche mattutine a casa Santa Marta sono ormai diventate un fenomeno omiletico e comunicativo di interesse mondiale) siamo davanti a un predicatore il quale ha praticato «a monte una ruminatio personale, un gustare i testi in cui non ci offre molti elementi di esegesi o spiegazione». Nel suo predicare Francesco «propone e offre delle risonanze esistenziali come interpellazione profetica e pro-vocazione a nuovi stili di essere Chiesa».  Biscontin suggerisce nel dettaglio le 'dosi' giuste per una buona predica: il 15% del tempo per l’introduzione (attirare l’attenzione e motivarla); il 75% al corpo dell’omelia («Deve avere un centro unico»); il restante 10% alla chiusura («Ha la funzione di fissare alla memoria il tema centrale; la chiusura deve essere in crescendo; talvolta può essere utile chiudere con una domanda in sospeso»). Il punto fondamentale però resta la domanda:  cosa deve essere l’omelia? Né catechesi in pillole né teologia in versione pop, sostiene Riccardo Barile, professore di teologia dogmatica a Bologna, il quale ha papa Pio X per giustificare questo doppio diniego. Già il pontefice del celebre Catechismo nell’enciclica Acerbo nimis sanciva: «Non manca chi, desideroso di alleviarsi la fatica, persuade se stesso che l’omelia può tenere il luogo della catechesi. Ma chi ben considera si accorge come un giudizio del genere sia errato». «L’omelia non è un elemento primario della liturgia della Parola – chiarifica Barile – ma è relativa alla piena intelligenza e attuazione della parola di Dio che è avvenuta attraverso la proclamazione della Scrittura».  Capitolo a parte (ma non troppo…) è quello cui si dedica Giacomo Canobbio, docente di teologia sistematica a Milano, che non si esime dalla questione su come «predicare i novissimi». Se è lontano il tempo in cui – secondo Agostino – «i discorsi dei predicatori» erano «i libri del popolo che non sa leggere», oggi, con una società alfabetizzata, anzi, 'videotizzata', in che modo si può (anzi, si dovrebbe) annunciare la realtà della resurrezione cristiana e la possibilità dell’inferno, il dramma del giudizio e la dimensione del purgatorio? Canobbio suggerisce di «usare un linguaggio metaforico, non terroristico». Esempi? «Il contenuto del paradiso: non più un luogo, bensì un essere-con in forma definitiva, attingendo da Dio stesso la pienezza di quell’amore che nel corso della vita tutti gli umani cercano. Non si deve avere timore di attingere dalle metafore dell’amore per dire la pienezza di vita che Dio ha preparato per noi». Fine della (non) predica.
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