domenica 11 gennaio 2015
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Vorrei cominciare da Plutarco (Cheronea, 46/48 d.C. – Delfi, 125/127 d.C.) questo nostro cammino, non perché Omero, Esiodo, Sofocle, Platone, Aristotele, Tucidide, Aristofane, eccetera, non rappresentino l’immenso retaggio che ci ha lasciato la civiltà e il pensiero greco; ma perché Plutarco, più di altri, ci segnala – quando già il mondo ellenico è nell’orbita romana – che ciò che noi oggi, nel XXI secolo, viviamo è lì da sempre; che la secolarizzazione, il venir meno di oracoli e di tradizioni, di culti e di certezze, non è il frutto maligno dell’oggi, ma un millenario processo ch’egli già contemplava, con apprensione e distacco: «E veramente quanti rapimenti, lunghe erranze, e nascondimenti di Dei, quante fughe religiose raccontano le favole, o cantano gli Inni sacri, propriamente non appartengono agli Dei […], ma se ne fa memoria per celebrare il potere e le virtù loro» (Del venir meno degli oracoli, cap. III). Gli Dei sono più in alto delle loro rappresentazioni; tutto il nostro scenario umano: sacrifici, divinazioni, oracoli, aruspicina, tutto è così vanamente terreno!: «È poi una balordaggine il credere che la Divinità, a guisa de’ ventriloqui – anticamente detti Euriclei ed oggi Pitoni – entri in persona a parlare in corpo di vaticinatori, servendosi come istrumento della bocca e voce loro» (ivi, cap. II). E inane, altrettanto, tormentare sino al rigore i destinati ad espiare per noi, quasi che la purezza – di questo nostro limo! – fosse attraente per gli Dei: «In conseguenza è ben stolto servirsi degli oracoli d’una donna, e darle tanto travaglio col custodirla pura e casta tutta la vita» (ivi, cap. V). Certo, ma noi, dopo Nietzsche, soffriamo di una sentenza così radicale da parere definitiva: «Dio è morto» (La gaia scienza). Sarebbe, forse, meno drammatico e ultimativo l’aforisma, se si ricordasse l’analogo apologo di Plutarco: «Raccontava [Epiterse] che una volta imbarcatosi per l’Italia sopra una nave carica di ricche merci, e piena di una turba di passeggeri, sulla sera trovandosi verso le isole Echinadi, il vento scemò, e la nave andando qua e là con direzione incerta, venne ad avvicinarsi a Paxos. […] All’improvviso fu sentita una voce uscire dall’isola di Paxos che a gran voce chiamava: 'Tamo': di che la meraviglia fu grande. Questo Tamo, egiziano di patria, era il timoniere, ma non conosciuto di nome dalla maggior parte di quelli che erano sulla nave. Chiamato una seconda volta, non rispose; finalmente alla terza prestò ascolto. Allora colui che chiamava, con voce tonante disse: 'Quando sarai giunto alla Palude, annuncia che il gran dio Pan è morto'. Raccontava Epiterse che tutti, udito questo, si spaventarono» (ivi, cap. III). Sapienza antica! Viviamo continuamente nell’Annuncio e continuamente nell’Agonia: «Jésus sera en agonie jusqu’à la fin du monde. Il ne faut pas dormir pendant ce temps là» (Pascal, Pensées, ediz. Brunschvicg, 553). E nello stesso pensiero, che ripercorre la notte del Getsemani, osserva: «Gesù prega, nell’incertezza di conoscere la volontà del Padre, e teme la morte. Ma una volta conosciuta, avanza offrendosi ad essa: Eamus. Processit (Joannes)». Andiamo, e si va avanti, senza voltarci, sapendo di non sapere: «Aprì una nuova via perché, solo perché ebbe il coraggio d’andare avanti senza domandarsi se altri seguissero, o persino se mai intendessero», e ancora: «Quando sarai avanzato fino a non aspettare una risposta, potrai finalmente dare in modo che l’altro possa ricevere » – un dare senza più ritorno (Dag Hammarskjöld, Linea della vita). In un dialogo che dedica tutto un capitolo, il quarto, alla pluralità dei mondi, lo scenario che Plutarco delinea va oltre il 'microcosmo' umano: «Così il vero Giove gode la veduta di scene molte, tutte belle e degne di lui, nei molti Mondi […]. In conclusione: il Governo e la Provvidenza d’un numero dato di mondi sembra a me che nulla abbiano di meno grande né di più laborioso di quello che se si occupassero – come piace agli Stoici – d’un sol mondo, trasformandolo e ricomponendolo infinite volte». Troppo antropocentrismo appanna la vista di questo mirabile cosmo percorso da miriadi di Vie lattee, che ancora non ha misura: milioni, miliardi di anni luce, già spenti, e che neppure arriveranno, nella nostra breve vita, alla percezione nostra. Così il Cantico di frate Sole, che inaugura la letteratura italiana in volgare, è già profetico annuncio di una contemplazione che varca l’umanesimo stesso: la Natura e il Cosmo vivono, attendono la nostra «lode» non perché ne abbiano bisogno, ma perché accedendo al loro ritmo si possa essere parte, più ampia e corale, di quell’immenso volgersi del creato, appunto «[…] danzando,/ oltre l’antimateria,/ fino a te,/ nel vivaio/ delle comete» (P. Celan,  Die gesenkten). Proprio Celan aveva scritto in  Filamenti di sole («Fadensonnen»): «L’ETERNITÀ diventa vecchia: in / Cerveteri gli / asfodeli s’interrogano l’un l’altro / fino a sbiancare » (DIE EWIGKEIT). Ecco, il compito che attende il XXI secolo è proprio quello di 'svecchiare l’eternità': di portare la poesia nel cuore di quella pluralità di mondi che ci avvolge. Ogni epoca ha chiesto alla parola di varcare il proprio tempo: penso alla Lettera sopra l’uso della Fisica nella Poesia (1765) dell’abate Giambattista Roberti, alla Ginestra di Leopardi, alle poesie ultime di Mario Luzi: «O era invece il cantico del mondo/ così pieno/ di totalità, così profondo –/ non bastava/ l’udito ad ascoltarlo,/ l’uomo a seguirne il ritmo» (Notte alta, verso mattutino). Un cantico di materia e di schiere celesti, di galassie mute e soffi di meteore: «In nonpunto, fruscio, dissoluzione/ di meridiane stelle!» (Andrea Zanzotto,  E ti protendi come silenzio, da Meteo); rinunciando al giudizio per esserne parte, parte intrisa nel vivente («Vivi e guardi, teste non sei/ ma parte. Oh mondo, mondo»: Luzi, Stanno sopra di te), con parole non tanto di vocabolari ma di captazioni, sì che si elevi nuovamente, «l’ordine universale/ anche nella sonnolenza/ del nostro silenzio» (Luzi, Tace).
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