domenica 1 marzo 2015
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Il racconto-intervista che qui pubblichiamo è un ampio stralcio di un lungo reportage che compare sull’ultimo numero della rivista «Mediterraneo», il quadrimestrale di cultura, idee ed ecologia fondato da Gino Girolomoni, il contadino-filosofo della comunità di Montebello, morto nel marzo 2012 e precursore dell’agricoltura biologica in Italia. La rivista è ora diretta da Dario Benetti e viene edita dalla Fondazione Girolomoni di Isola del Piano, vicino a Urbino (info: tel. 0721-720334; www.fondazionegirolomoni.com).Negli anni più roventi della rivolta integralista contro il regime di Algeri, le pendici dell’Atlante, 100 chilometri all’interno della costa erano la roccaforte della guerriglia armata. Le montagne erano il rifugio delle milizie che avevano dichiarato la guerra santa contro il governo dei militari, accusato di non avere rispettato l’esito delle elezioni e di avere messo fuori legge il Fronte Islamico di Salvezza, vincente nelle elezioni politiche del 1991. La repressione del dissenso innescò una spaventosa spirale di violenza e di terrorismo che segnò tutti gli anni Novanta. La violenza colpì a più riprese anche gli stranieri presenti nel paese, al punto che l’Algeria divenne praticamente off-limits per gli occidentali fino alle porte del nuovo millennio. È in questo contesto di lotta armata per il potere e di guerra santa integralista, che avvenne nel 1996 il massacro dei trappisti nel monastero di Tibhirine. Ancora oggi, non è facile inoltrarsi tra quelle montagne. Sono partito da Algeri alle 5 di mattina, accompagnato dall’uomo che a distanza di 18 anni tiene viva la memoria di quel martirio e l’esistenza stessa del monastero. Jean-Marie Lassausse è un religioso della Mission de France, con una lunga esperienza nei paesi arabi e africani. È in Algeria dal 2001 ed è l’ultimo sacerdote occidentale rimasto a perpetuare la missione e la presenza della fede cristiana, lo 'spirito di Tibhirine', in una terra ancora macchiata dal sangue di quella tragedia. È stato mandato qui, mi spiega, dall’arcivescovo di Algeri, Henri Teissier, nell’attesa che altri proseguano l’opera di presenza monastica così brutalmente interrotta.

(A quasi 20 anni dalla strage, padre Jean-Marie Lassausse, il religioso che vive nel monastero dell’Atlante, vuole testimoniare che islam e cristianesimo possono convivere anche in Algeria) L’interno del monastero è rimasto esattamente come allora. Sulla destra vediamo la portineria, con la stanzetta dove riposava padre Jean-Pierre, sopravvissuto proprio perché si trovava in un’ala laterale. Sulla sinistra, e al piano superiore, ci sono le stanze dove i sette monaci vennero prelevati a forza e trascinati fuori dai guerriglieri. Percorro il colonnato del portico, chiuso da una grande vetrata colorata. Entro nella stanza di padre Christian, il capo del monastero, l’uomo che ha lasciato la testimonianza più commovente di quanto è successo. Aveva affidato le sue riflessioni ad una lettera ritrovata dopo la sua morte. Una sorta di testamento spirituale nel quale il sacerdote, ben consapevole del rischio al quale si stavano tutti esponendo rimanendo in quel luogo, si era detto pronto a perdonare anche i Fratelli della Montagna, proprio quelli che lo avrebbero ucciso, «perché non sanno quello che fanno». Il massacro, infatti, era stato in qualche modo già annunciato tre anni prima, quando erano stati uccisi 12 croati in un paese vicino. I guerriglieri si erano presentati a Tibhirine la vigilia di Natale, intimando ai monaci di non interferire con quanto stava avvenendo nella regione. Di fronte alle minacce, padre Christian e i suoi confratelli avevano invece deciso di restare vicini alla gente del posto, molti dei quali avevano chiesto espressamente ai monaci di non abbandonarli. In quella lettera, ritrovata a massacro avvenuto, padre Christian parlava anche dell’Islam, contestando la tesi che identifica religione e politica e riaffermando il suo amore per quella terra e quella fede, con l’Algeria e l’Islam, quello vero, uniti in maniera indissolubile, come un corpo e un’anima sola, nella tradizione stessa della Bibbia e del Vangelo. «Amen, Inshallah» sono le ultime parole con le quali si chiude quella indimenticabile lettera. È rimasta come allora anche la biblioteca, che si intravede da una delle finestre del corridoio. Poco più avanti si apre la stanza refettorio, dove avvenne l’ultima cena così ben rappresentata nel film 'Gli Uomini di Dio', che ricostruisce il martirio dei trappisti di Tibhirine. «Sono qui», mi dice padre Jean-Marie, «nell’attesa che il monastero riprenda a vivere come un tempo, per testimoniare che il Cristianesimo e l’Islam possono convivere in pace anche in Algeria, come sognava padre Christian». Non ha paura del silenzio e della solitudine qui? «No, affatto! Non ho paura né del terrorismo, né del silenzio, né della solitudine. Certo bisogna farci l’abitudine, è un apprendistato. Ma sappiamo bene che in un paese musulmano c’è una certa solitudine. Per esempio qui a Tibhirine non posso celebrare l’Eucaristia se non con dei cristiani che sono di passaggio, poiché non c’è nessun cristiano nella regione. Ma è essenziale che questa solitudine sia abitata: abitata da Dio, abitata dalla preoccupazione di incontrare una popolazione che è in attesa». Questo laboratorio monastico può essere considerato come una sorta di prima linea teologica della relazione islamo- cristiana? «Tibhirine è comunque un’esperienza che intendiamo ripetere, duplicare in molti luoghi. Ma non bisogna dimenticare che la presenza cristiana nei paesi musulmani non è qualcosa di facile perché l’Islam è una religione totalizzante. L’esempio di Tibhirine mostra che è possibile inserirsi in terra musulmana una comunità cristiana, una famiglia monastica, ma per fare questo bisogna giocare la carta della convivialità, dell’apertura. Se il monastero di Tibhirine fosse un monastero chiuso credo che l’evoluzione sarebbe stata tutt’altra. Bisogna che chi accetta di riempire questa missione abbia il desiderio di aprirsi intimamente e veramente alla religione dell’altro». Lei ha detto che noi occidentali non siamo il centro del mondo e che 'è vivendo con gli altri, facendo il mio ministero, andando incontro a loro, che divento uomo'. «Certo, sono francese e sono stato ordinato prete in Francia. Ma siccome la Missione di Francia mi ha mandato all’estero fin dal primo anno del mio ministero, ho subito scoperto che la Chiesa dell’Europa, le Chiese d’Europa non sono più centrali. L’avvenire del cristianesimo, e questo è un dato di fatto, non è nei paesi occidentali ma in Africa nera, in Estremo Oriente e in America latina. Perché gli Stati Uniti e l’Europa per quanto riguarda la fede stanno invecchiando, e probabilmente anche dal punto di vista dell’economia». Alle persone che pensano che l’Islam sia solo integralismo, solo terrorismo, cosa risponde? «No, l’Islam non è solo terrorismo. L’Islam è prima di tutto formato da comunità. L’Islam è la Umma, la comunità. Certo il terrorismo esiste in Islam, ma per me non è la nota dominante dell’Islam. Ci sono milioni di musulmani che vivono la loro fede in tutta serenità e che rifiutano questi epifenomeni del terrorismo, una spina nelle relazioni tra credenti». Perché noi occidentali pensiamo che le persone musulmane che vengono non 'meritino' molta fiducia? «I mass media si interessano molto di più degli effetti negativi, delle cose che non funzionano che a quelle che funzionano. Quello che funziona è Tibhirine, anche se c’è stato il fatto del rapimento e della morte dei Fratelli. I sessant’anni vissuti da questa comunità cistercense e quello che noi viviamo oggi rimane largamente positivo. Non abbiamo nessuna rivendicazione, nessun conto in sospeso. L’Islam è una religione di pace, di serenità e di fede. Gli atti terroristici che sono perpetrati a nome dell’Islam offuscano purtroppo la religione musulmana nei paesi occidentali». «La vita musulmana è una buona cosa agli occhi di Dio», e «voglio invitare i musulmani a seguire il loro cammino», ha detto il Papa. Cosa ne pensa? «Sono perfettamente d’accordo. Penso che ognuno ha la sua tradizione religiosa: i cristiani e i musulmani. Il mio progetto non è che dei musulmani diventino cristiani o ancor più che dei cristiani diventino musulmani, ma piuttosto che ognuno approfondisca il solco della propria fede. Che il cristiano diventi sempre più un miglior cristiano e quindi si apra all’Islam e che il musulmano diventi sempre più un musulmano illuminato. Penso che quando i due credenti diventeranno due credenti più illuminati, ci saranno dei ponti e degli scambi». Per lei qual è la religione 'più giusta'? «Sono nato nel cristianesimo, i miei genitori erano cristiani. Ho scoperto la fede e la approfondisco ogni giorno, sono un uomo di religione cristiana. Amo l’irradiarsi della fede cristiana che per me va di pari passo con l’appagamento dell’uomo. Ma il credente musulmano deve seguire il mio stesso cammino, e realizzarsi nella sua religione. Per me non c’è una religione, ma ci sono diverse vie che conducono a Dio». Nel suo testamento Padre Christian ha scritto che 'l’Algeria è l’Islam, la politica e la religione sono una cosa unica', cosa ne pensa? «Per me l’Islam non è sulla stessa scala storica del cristianesimo. Per due ragioni: per prima cosa in rapporto alla Scrittura. Noi abbiamo avuto nel cristianesimo un’evoluzione considerevole a partire degli anni 1960-1962, con il Concilio Vaticano II. Abbiamo avuto un rapporto ermeneutico con la traduzione della parola di Dio. L’abbiamo letta nel suo contesto, con dei metodi, l’abbiamo reinterpretata. L’Islam non è ancora arrivato a questo punto, almeno nella maggioranza. L’Islam ha ancora una lettura molto letterale della parola del Corano, e questa è una prima cosa che ci distingue. La seconda ragione è che la maggior parte delle volte Islam e politica sono un’unica cosa, mentre le nostre società cristiane occidentali si sono separate dalla politica. Ci sono ancora delle connivenze certo, ma il potere politico e la religione sono due cose distinte. Questo pone dei problemi, perché se la fede è unicamente un fatto privato che cosa diventa? Però c’è stata una scissione tra il potere politico e il potere religioso, e nell’Islam questo non è ancora del tutto avvenuto». Una cosa molto importante di cui parla il testamento è il perdono. «Christian in questo testo straordinario perdona in anticipo colui che alzerà la mano su di lui, o sulla sua comunità. In tutti quegli anni bui è forse questa la cosa più difficile da capire: perdonare chi? Christian in uno slancio di fede perdona in anticipo colui che non conosce, e che sarà il suo boia. È qualcosa di straordinario, ma se penso a quelle migliaia di persone che hanno perso un membro della loro famiglia durante quegli anni bui… La difficoltà maggiore oggi in Algeria è sapere chi perdonare».
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