sabato 6 febbraio 2016
Così la finanza sfrutta la Natura: ma il prezzo è ingiusto
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Quanto vale il creato? La natura ha un valore economico? Quanto può “rendere” la somma di tutte le risorse naturali del pianeta?  Non è una domanda oziosa, questa. Perché qualcuno vi ha già dato una risposta, segno che a tutto l’insieme degli esseri viventi e non (minerali, vegetali e animali, dunque), oggi c’è chi dà un prezzo. Ci ha pensato già nel 1997 lo studioso Robert Costanza in un articolo su Nature: a suo dire l’ammontare dei servizi resi da tutto quel che vi è in natura era compreso in una forchetta tra i 16mila e i 54mila miliardi di dollari. La natura è la prima impresa del mondo. Partendo da una siffatta precomprensione del creato è allora “naturale” osservare che la natura (ci si perdoni il gioco di parole) sia diventato il «nuovo Eldorado della finanza», come sottolinea con la forza dei numeri e una pugnace inchiesta sul campo Prédation, testo da poco nelle librerie francesi (Edition La Découverte, pagine 208, euro 16,50) a firma della giornalista Sandrine Feydel e del ricercatore Christophe Bonneuil. I quali ricostruiscono la genesi storica dell’idea che l’ambiente possa essere finanziariamente redditizia. E svelano i retroscena di come compagnie assicurative, industrie multinazionali e banche d’affari speculino su foreste, risorse ambientali, clima, catastrofi climatiche.  Ma andiamo con ordine. È negli anni Settanta- Ottanta che, sottolineano i due autori, nasce, soprattutto in ambito statunitense (la presidenza di Reagan è decisiva in questo senso) l’idea che la natura possa diventare fonte di rendita, in particolare con la questione dell’inqui- namento da sorgenti carbonifere come il petrolio. In altre parole funziona così: gli Stati impongono ai privati, in particolare industrie pesanti, di “risarcire” le proprie emissioni inquinanti con “compensazioni ecologiche”. Un’industria siderurgica, per esempio, che emette tot tonnellate di anidride carbonica all’anno può “compensare” con la creazione di un tot foreste altrove. Ma Feydel e Bonneuil svelano l’inganno. Dietro a questa idea, che parrebbe positiva, nasce subito il commercio finanziario delle emissioni, che in Europa prende il nome di European Climate Exchange: «Questo mercato implica nuovi intermediari finanziari (Borse, traders, professionisti dell’audit) che non sono gli ultimi a trarre profitto da queste attività. Hanno anche provocato notevoli frodi fiscali, ruberie e altre malversazioni». In particolare è un sotterfugio lessicale quello che permette l’espandersi dell’idea di compensare altrove l’inquinamento causato in un preciso luogo (i due autori segnalano, tra l’altro, come sia ben diverso abbattere una foresta secolare in un determinato posto e pensare che questa venga compensata piantando nuovi alberi a migliaia e migliaia di chilometri).  Il sotterfugio è l’espressione «senza perdita netta», ovvero «l’idea che la natura sia semplicemente qualcosa che si può spostare», senza pensare alla salvaguardia della biodiversità. Guarda caso, il principio dei “crediti di emissioni” inquinanti – da vendere e comprare, come fossero normali prodotti finanziari – è stato condannato dall’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. La quale al punto 171 ha denunciato come «la strategia di compravendita» di tali crediti possa «dar luogo a una nuova forma speculazione e non servirebbe a ridurre l’emissione globale di gas inquinanti». Francesco nel suo documento magisteriale ha rincarato la dose: tutto questo «può diventare un espediente che consente di sostenere il super-consumo di alcuni Paesi e settori». Tanto più che, segnalano Feydel e Bonneuil, oggi il 50% dell’inquinamento sul pianeta Terra è causato dal 7% della popolazione. La denuncia del libro è forte e argomentata. È tutta racchiusa, involontariamente, nell’affermazione di Achim Steiner, direttore dell’ufficio sviluppo dell’Onu (il libro stigmatizza anche il cedimento delle Nazioni Unite all’ideologia mercatista travestita da ecologismo): «Bisogna mettere un prezzo alla natura. Se non avrà nessun prezzo, la natura non sarà protetta». Si è arrivati a calcolare perfino il valore economico dell’impollinazione, 200 miliardi di dollari annui, ovvero l’8% della produzione agricola mondiale. E addirittura si sta progettando in Cina la possibilità – a fronte della perdita dell’impollinazione a causa del crescente inquinamento – un metodo di fecondazione vegetale fatto da api artificiali. Con tutto quel che, economicamente, di compravendita ne consegue. Gli esempi di questa mercificazione della natura addotti da Feydel e Bonneuil sono eloquenti e numerosi. Si va dalla Borsa Verde varata nel 2012 a Rio de Janeiro dal possidente terriero Mauro Costa (che ha iniziato a quotare i 3.500 ettari di foresta amazzonica da lui posseduta, ricca di biodiversità) alle obbligazioni assicurative su tifoni e terremoti, chiamate cat bonds, che oggi hanno raggiunto già un valore di 25 miliardi di dollari. Il Governo messicano è stato il primo a servirsene e la Banca Mondiale ha lanciato un cat bond da 30 milioni di dollari per 16 Paesi caraibici per assicurarli contro terremoti. La banca Bny Mellon di Wall Street ha definito questo campo di investimento un ambito finanziariamente «dal potenziale enorme».  La conclusione può sembrare catastrofica, ma – seguendo l’avvertimento di Laudato si’– è proprio da queste denunce forti che si può prendere coscienza della gravità dell’attuale crisi ecologica: «Una natura messa sotto la forza dei mercati finanziari, invece di una Terra madre che ingloba l’economia umana: ecco ciò cui ci ha condotto il fatto di rendere il sistema Terra più vulnerabile».
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