martedì 26 maggio 2015
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Diciamo la verità. Se non ci fosse stato il film A Beautiful mind a raccontare la sua vita, nessuno mai avrebbe ricordato John Nash perché la matematica e i suoi 'figli' difficilmente riescono a guadagnarsi la ribalta della cronaca. Del resto anche la motivazione del Nobel che gli fu attribuito nel 1994 e che parlava di «equazioni differenziali alle derivate parziali non lineari» non aiutò di certo i non addetti ai lavori a comprendere il significato dei suoi studi che pure hanno giocato un ruolo importantissimo con ricadute anche nella vita di tutti i giorni. Nato nel 1928, avrebbe compiuto gli ottantasette anni il prossimo 13 giugno, ma un incidente stradale gli ha tolto la vita su un taxi mentre stava rincasando, assieme alla moglie, reduce da un viaggio in Norvegia dove aveva ritirato il prestigioso Premio Abel per la matematica.  La vita di Nash ricalca tutti gli stereotipi del cliché del genio. Fin da bambino mostrò una sua dispettosa diversità che lo estraniava dai giochi comuni preferendo starsene solo a leggere tant’è che suo padre, un ingegnere chimico, lo trattava quasi da adulto offrendogli in lettura libri di scienza non certo adatti a un bambino.  Il suo primo contatto con la scuola non fu granché anzi gli insegnanti non compresero la sua precoce genialità. Terminato il liceo, forse per seguire le orme del padre, intraprese gli studi di ingegneria chimica ma in seguito, affascinato dalla logica e dalle formule, si dette anima e corpo alla matematica conseguendo la laurea a soli vent’anni. Dopo la laurea, seguendo un iter comune, affrontò il dottorato a Princeton, dove fra l’altro sarebbe stato in contatto anche con Einstein e con Von Neumann, ma quello che non era affatto comune era la lettera del suo rettore che lo presentava con questa frase: «Quest’uomo è un genio». E genio lo è per davvero perché già negli anni del dottorato Nash elabora le teorie per le quali sarebbe diventato famoso, vale a dire i principi matematici della teoria dei giochi e al tempo stesso scrive il saggio che molti anni più tardi gli avrebbe valso il Nobel. Il premio, però, gli fu assegnato per l’economia perché, come è noto, il Nobel non prevede riconoscimenti ai matematici.  Le rivoluzionarie idee del giovane Nash minarono alla base i fondamenti delle teorie di Adam Smith, considerato il fondatore dei principi dell’economia moderna. E la differenza fra i due 'pensieri' si coglie in un passaggio del film che riporta l’affermazione di Smith secondo la quale il miglior risultato per una certa azione «si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé». Smith però, commenta Nash, si sbaglia perché in realtà il miglior risultato si ottiene «quando invece ogni componente fa ciò che è meglio per sé ma anche per il gruppo».  Ma la fama di Nash fu legata alla sua malattia, una particolare forma di schizofrenia che tuttavia non gi impedì di diventare uno dei più grandi matematici del nostro tempo. E la sua malattia fu fatta oggetto del film di Ron Howard dove il matematico fu portato sullo schermo da Russel Crowe. Il film, che si guadagnò quattro Oscar, è del 2001, una data che richiama la famosa 'odissea' di Kubrick e in fondo anche la vita di Nash può essere letta come una lunga e intricata odissea dentro al grande mistero dell’uomo.   Del resto Nash non è il primo né sarà l’ultimo esempio del genio che interseca la propria parabola umana con la malattia. Pensiamo a Stephen Hawking, ad esempio, il genio inchiodato su una sedia a rotelle che tuttavia riesce a carpire i più segreti misteri dell’universo. E anche alla vicenda umana di Hawking è stato recentemente dedicato un film. Sicuramente il grande pubblico non riuscirà a capire i teoremi di Nash ma resterà comunque affascinato dalla sua incredibile e, per certi versi, incomprensibile vicenda umana. Del resto lo stesso Nash, scherzando sulla sua vita, concentrò tutta la sua parabola esistenziale con questa frase sibillina: «Io, premio Nobel, diventai pazzo in nome della razionalità».
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