martedì 23 febbraio 2016
​L'intervista con l'antropologo Ugo Fabietti per superare l'mmagine di Medio Oriente, danneggiata da stereotipi che influenzano l'analisi dei media e lo sguardo della politica.
Il Medio Oriente oltre gli stereotipi
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Il Medio Oriente? Una terra dai confini vaghi ostaggio di oscurantismo e arretratezza, dove è fatale imbattersi nella «mentalità araba» e in cui domina il «pensiero islamico», quando non, addirittura, il «fanatismo musulmano». L’immagine di massa di un’area del mondo complessa, sfaccettata e quanto mai strategica all’interno delle dinamiche globali è inficiata da un’infinita serie di stereotipi e luoghi comuni, che influenzano non solo l’opinione pubblica ma anche, non di rado, l’analisi dei media e lo sguardo della politica, inducendo spesso a clamorosi equivoci, a letture distorte della realtà e a conseguenti scelte strategiche inefficaci o controproducenti. L’incomprensione – reciproca, va detto – tra ciò che chiamiamo Occidente e il mondo mediorientale – un’area vastissima e variegata in cui si tende ad includere una fascia che va dal Nord Africa all’Afghanistan – ha le sue radici in una lunga storia di conflitti che, dai tempi delle Crociate all’era coloniale, hanno cristallizzato pesanti barriere ideologiche. Tanto resistenti che lo sguardo sull’altro è rimasto ingabbiato in letture superficiali, spesso di comodo e mistificatorie, basti pensare a una certa tradizione di studi orientalistici, impastata di stereotipi esotizzanti. Lo stesso Medio Oriente – a ben vedere – è un’invenzione dell’Occidente, se è vero che l’espressione nacque nel contesto degli interessi strategici delle potenze europee agli inizi del XX secolo. Se è evidente la necessità di rifondare su basi più solide la conoscenza di questo universo, geografico e ancor più semantico, interessante è il contributo proposto da Ugo Fabietti nel suo recente Medio Oriente. Uno sguardo antropologico (Raffaello Cortina, pagine 300, euro 24), in cui il docente di Antropologia culturale alle Università di Milano-Bicocca e Bocconi propone appunto «una lettura delle culture e delle società “mediorientali” che utilizza gli strumenti di una disciplina come l’antropologia, diversi da quelli della storiografia, della politologia o della geopolitica». Professore, lei sottolinea tuttavia come l’identità stessa dei popoli mediorientali sia stata influenzata dalla geopolitica: in che senso? «In Medio Oriente sono presenti molte comunità differenti per cultura, lingua e religione. Con la nascita degli Stati nazionali, esse sono state territorialmente accorpate o separate, in maniera tale che gruppi omogenei si trovano oggi a far parte di nazioni diverse. Il quadro storico della formazione di certe entità politico amministrative aiuta a comprenderne i limiti di fronte a una serie di elementi emersi negli ultimi 60 anni, nel mondo arabo e non solo. Pensiamo alla nascita di Israele e alla questione palestinese, ma anche al fatto che il potere, in molti di questi Stati post coloniali, sia rimasto nelle mani di chi, più che fare gli interessi delle popolazioni locali, era in realtà connivente con gli ex colonizzatori». In passato in reazione a queste dinamiche ci si è rifugiati nel panarabismo o nella religione islamica. Oggi sta avvenendo qualcosa di simile? Una nuova identità su base religiosa sta sostituendo il tradizionale modello tribale? «Il fatto che oggi la reazione all’Occidente possa assumere una connotazione religiosa, invece che tribale, è coerente con la contemporaneità perché l’azione di fattori comunicativi nuovi, come la presenza ormai globale dei media, agevola chi è alla ricerca di un motivo identitario e oppositivo che possa essere percepito come comune (nonostante le molteplici divisioni settarie). Una scelta peraltro abbastanza ovvia, se pensiamo che, nell’ultimo secolo, sono ben poche le ideologie non religiose elaborate in quest’area: passato il panarabismo, spesso legato al socialismo, che cosa rimane?». Si può dire che, in un certo senso, alcuni fenomeni violenti a cui assistiamo derivino, più che da pura volontà di potere, dal desiderio di affermare un’identità? «Quando entrano in gioco manifestazioni violente penso che dovremmo essere cauti: se osserviamo il modello di reclutamento di molti jihadisti ci accorgiamo che il suo successo è legato non tanto all’adesione all’islam quanto all’infatuazione per certi “miti” mediatici. All’origine di questa fascinazione ci sono diversi elementi. Prima di tutto dovremmo tener conto del fatto che nei Paesi del cosiddetto Medio Oriente metà della popolazione è costituita da giovani, spesso grandi masse di disoccupati in cerca di riscatto. Un riscatto che si può trovare nell’adesione a un gruppo, una setta, una corrente islamica, che offre un senso di appartenenza e certezze, anche economiche. Ma non è tutto qui. In molti di questi Paesi, che ci piacciano o no i loro costumi, una parte della popolazione mal sopporta il fatto che l’Occidente abbia esportato modelli amministrativi e culturali che non possono essere recepiti d’emblée in società con una propria storia. Una reazione che, a parti inverse, metteremmo in atto anche noi». Tra i modelli tradizionali percepiti come minacciati c’è quello familiare: che ruolo ha oggi la famiglia nelle società mediorientali? «Premettendo che non possiamo proiettare una nostra idea di famiglia in contesti molto diversi da un’area all’altra, in generale parliamo di un’entità sociale molto più allargata e più introvertita di quanto non sia in Occidente oggi. Di fronte alla mancanza di sfere pubbliche particolarmente sviluppate – il mercato del lavoro, la dialettica politica, la libertà di informazione… – la famiglia diventa l’unico ambito di riferimento per un individuo che, al di fuori, si avventura in un mondo pericoloso. D’altra parte, visto che il contesto familiare è il campo d’azione principale dell’individuo, esso diventa anche un elemento di potente conflittualità. Questa doppia tendenza innesca un cortocircuito che oggi è evidente in alcune società mediorientali. Se in certi contesti le relazioni interne ai nuclei si sono trasformate, ne abbiamo molti altri – pensiamo all’Arabia Saudita – in cui gli avanzamenti economici e tecnologici convivono con una forte arretratezza in campo familiare, in particolare per la condizione femminile». A proposito di donne, è corretto dire che certe dinamiche hanno una base antropologica più che religiosa? «Senz’altro per comprenderle è opportuno spostarsi dal discorso religioso. Ciò che sta avvenendo è che molte donne, consapevoli della loro identità, cercano una via di emancipazione all’interno delle proprie società, anche in quelle islamiche. L’annosa questione del velo è in realtà un falso problema. Nel mondo rurale europeo, fino a non molti anni fa le contadine indossavano un fazzoletto in testa: lo facevano per un senso di auto-identificazione, e imporre loro di toglierlo sarebbe stato considerato quanto meno stravagante. Similmente molte femministe islamiche scelgono di portare l’hijab. Ovunque, vestirsi in un certo modo vuol dire incorporare un atteggiamento di relazione con gli altri: dobbiamo quindi comprenderlo, caso per caso, per distinguere tra auto-affermazione e situazioni di imposizione patriarcale».
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