giovedì 26 aprile 2012
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All’inizio degli anni Trenta e sul punto di laurearmi nell’Università di Pisa, oltre agli studi specifici di storia dell’arte mi appassionava la lettura di testi di filosofia, di estetica in specie. Mi avvenne così di ricercare e procurarmi, nella seconda edizione accresciuta del 1927, Art et Scolastique di Jacques Maritain. Era, questo, un libro allora assai poco noto in Italia e senza dubbio controcorrente: almeno se considerato dall’osservatorio della facoltà di Lettere pisana e della scuola Normale Superiore, diretta da Giovanni Gentile e frequentata da pochi, per lo più dotatissimi, allievi.In materia di estetica dettava legge Benedetto Croce con le sue opere famose. Apparve poi nel 1931 la Filosofia dell’arte di Gentile. Sebbene fortemente differenziati tra loro il neoidealismo storicistico di Croce e l’attualismo teologizzante gentiliano rappresentavano in quegli anni gli indirizzi più seguiti. Non si erano infatti ancora affermati nel settore dell’estetica gli spiritualisti cristianamente orientati Luigi Stefanini e Augusto Guzzo, come pure – per fare due nomi diversamente significativi – Galvano Della Volpe e Luigi Pareyson. In contrapposto all’estetica crociana dell’intuizione, essi avrebbero rivendicato il primo, il peso delle componenti storico-sociali e degli strumenti tecnici nelle opere d’arte, in una prospettiva marxistica moderatamente riveduta; il secondo la sua teoria dell’arte come formatività, ricca di spunti felici. Tornando a Maritain, il prevalere tra noi della cultura idealistica non poteva evidentemente che ostacolare, come è stato bene osservato, la diffusione di un pensiero estetico volto ad affermare, rifacendosi ai principi tomistici, il carattere intellettuale dell’arte e inseparabilmente la concretezza dei procedimenti produttivi attuati nella materia dagli artisti. Non per nulla Maritain obiettava a Croce che il grande errore della sua posizione neohegeliana consisteva nel non riconoscere nella contemplazione artistica l’aspetto intellettuale insieme a quello intuitivo.Per la verità anche a livello accademico non mancò in Italia qualche limitato segno di attenzione ad Art et Scolastique; mi riferisco in particolare alla recensione fattane da Armando Carlini nel suo volume La religiosità dell’arte e della filosofia (1934). Succeduto a Gentile nella cattedra di filosofia teoretica dell’Ateneo pisano ed esponente di spicco di uno spiritualismo sempre più aperto al cristianesimo, Carlini non poteva accettare per la sua passata formazione tra Croce e Gentile le tesi tomistiche di Maritain e circa la metafisica dell’Essere ribadiva le riserve formulate anche in un noto dibattito con monsignor Francesco Olgiati; mostrava invece di apprezzare grandemente nel collega francese l’acuta sensibilità ai problemi dell’arte contemporanea. A differenza di Croce, diffidente delle novità nella poesia e nell’arte, Maritain era infatti cresciuto a Parigi in assiduo contatto con poeti, pittori e musicisti di avanguardia quali Picasso, Braque, Roualt, Stravinskij, Cocteau. Di qui il nuovo modernissimo significato da lui attribuito alle formule tomiste: lo splendor formae in cui era fatto consistere dall’Aquinate l’essenza della bellezza poteva secondo Maritain esser fatto brillare sulla materia in un’infinità di diversi modi; il che equivaleva ad accordare la massima libertà agli artisti, sottoposti solo a una legge di continuo rinnovamento, e a riconoscere la validità delle loro espressioni individuali. Non soltanto ai tradizionali criteri di “integrità” e di “proporzione” non doveva essere riconosciuto alcun valore assoluto; anzi – aggiungeva a modo di esempio lo scrittore – «se a un futurista piace di fare soltanto un occhio, o un quarto di occhio, alla signora che ritrae nessuno può contestargliene il diritto, purché quel quarto di occhio sia precisamente ciò che occorre in quel caso determinato». In realtà la bellezza dell’opera (identificata con la “bellezza stilistica” su cui insisteva nelle sue illuminanti lezioni il mio maestro Matteo Marangoni) non era quella dell’oggetto rappresentato: affermazione che sembra presupporre la celebre definizione della pittura proposta da Maurice Denis e più volte richiamata da Maritain.A parte l’accenno ai futuristi e alla loro libertà di rappresentazione, un solo nome di artista contemporaneo italiano compare in Art et Scolastique accanto ai grandi maestri antichi, ed è quello di Gino Severini, ricordato per il suo volume Du cubisme au classicisme (1921) in cui il pittore toscano dava conto della sua personale risposta a una esigenza di “richiamo all’ordine” più ampiamente diffusa. In proposito Maritain non mancava di rilevare che nel suo sforzo di superamento del futurismo e del cubismo Severini aveva riposto un’eccessiva fiducia in mezzi come il rapportatore e il compasso, appartenenti ancora all’ordine materiale; al tempo stesso però dava atto all’autore dell’importante significato di una ricerca mirante a ricuperare condizioni necessarie, sebbene non sufficienti, per un’arte autenticamente intesa. Analoghe riserve dovevano esser riformulate da Maritain in un suo successivo saggio sull’artista (1930) con la puntualizzazione di una temporanea fase di rigore razionalistico, conseguente all’accostamento di Severini alla trattatistica antica e moderna sull’architettura e ai suoi studi di matematica, concernenti in particolare i rapporti numerici, e di geometria descrittiva. Nel frattempo Severini, dopo la celebrazione religiosa del suo matrimonio con Jeanne Forti, aveva potuto incontrare di persona i Maritain: il nostro pittore di Raissa avrebbe illustrato un libro, L’ange de l’Ecole, mentre Jacques gli avrebbe dedicato, in uno spirito di sincera amicizia e ammirazione per l’artista non più considerato solo in quanto teorico, lo scritto del 1930 già citato e preludente a una mostra di Severini ad Amsterdam presentata un anno più tardi dallo stesso Maritain. Nel nuovo saggio questi prendeva in esame l’adesione del pittore sia al futurismo – fenomeno «tipicamente italiano» per il suo gioioso ottimismo e l’impaziente generosità – sia al cubismo. L’insoddisfazione per entrambi i movimenti doveva indurre verso il 1917 Severini a «reimparare il mestiere» e a ritrovare, dopo la fase di riflessione razionalistica, la sua vera natura di artista idealmente vicino ai geniali ricercatori del primo Quattrocento toscano e appassionatamente attaccato alla concretezza di un «lavoro onesto, leale e rigoroso». Il debito contratto col pensiero di Maritain nel corso di un simile processo trovò espliciti riconoscimenti da parte dell’artista. Introducendo una raccolta di propri saggi, Ragionamenti sulle arti figurative (1934), egli infatti scriveva: «È molto utile leggere Art et Scolastique e Frontières de la poésie [...] mi ci riferisco spesso, e penso che tali principi essenziali costituiscono la sola teoria dell’arte che ci permetta di pensare il passato guardando l’avvenire. È un errore separare l’arte del passato dall’arte presente. O non si capisce né l’una né l’altra o si capiscono tutte e due». Il lungo e fruttuoso dialogo tra Maritain e Severini non si è probabilmente limitato alle circostanze qui riassunte in nuce. Anche da sole, tuttavia, esse sono forse sufficienti a definire i termini essenziali di un confronto per più aspetti esemplare.
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