venerdì 8 gennaio 2016
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Un giornale di New York nel 1904 scriveva che Alfons Mucha era «il più grande artista decorativo del mondo»; nel 1921, Christian Brinton, un critico americano all’epoca in forza al Brooklyn Museum, definiva Mucha «un ardente apostolo del Nazionalismo in arte». Ma Alfons Mucha è spesso indicato come uno dei padri dell’Art Nouveau, espressione che si deve all’architetto e designer Henry van de Velde, e significa molte cose, ma in particolare quella fluidità energetica che contraddistingue la linea come generatrice dell’immagine, della concezione spaziale, della struttura, del dettaglio che cerca sempre una eleganza estetica. Si potrebbe ritrovarne le radici nell’Estremo Oriente e in effetti quello che poi è stato anche riassunto sotto l’ombrello dello stile Liberty ha precise, dichiarate, consonanze con le culture asiatiche, quella cinese e quella giapponese in particolare (questo stile prende il nome da Arthur Lasenby Liberty, un geniale commerciante inglese di stoffe e altri oggetti decorativi importati da quelle latitudini, tanto che nel 1902, quando si tenne a Torino l’Esposizione internazionale di arti decorative che consacrò definitivamente questa moda estetica, la sua azienda, la Liberty & Co., divenne sinonimo di quello stesso stile europeo che coniugava atmosfere esotiche ed eleganza). Questo stile, detto anche floreale, nelle intenzioni dei suoi maggiori protagonisti aveva un valore tutt’altro che decorativo, se non nella misura in cui decorazione è sinonimo di forma totale, di un modo di essere e di sentire, un contrappunto della vita, come per certi aspetti accadeva col simbolismo, a cui il Liberty non è tanto estraneo. L’Art Nouveau fu una sorta di artemondo che abbracciava tutti i campi della creatività: architettura e pittura, scultura e design d’interni, illustrazione e musica, oggettistica, suppellettili, tessuti, fino alla stessa arte funeraria. Aveva un coefficiente innovativo che si stemperava in una procedura 'tradizionale' (anche in polemica con il vento dell’industrializzazione); a suo modo, l’Art Nouveau era un’arte esistenzialista prodotta per una società benestante, più che borghese, il cui decadentismo incarnava il conatus della fine di un mondo, fine che s’inabisserà nella terra insanguinata della Grande Guerra.Mucha fu uno dei protagonisti di questa bellezza decorativa, piena di sbuffi e volute, di lusso sfrenato, di una sacralità a tratti morbosa e tragica perché alla ricerca di un nirvana che eleva l’artista a sacerdote del rito iniziatico, da cui il mondo sembra rinascere come la fenice perennemente dalle proprie ceneri; si tratta di una illusione, di una narcosi fondata sul desiderio e sul piacere di rispecchiarsi in quella nuova terra che simula nelle forme il mondo vegetale e animale, l’esotica luce che percorre la storia dell’arte dall’Antico Egitto alla pittura giapponese. Mucha venne consacrato sugli altari dell’arte europea a Parigi, nel crepuscolo ottocentesco, e il suo nome viaggiò insieme a quello di Sarah Bernhardt fin dal 1894, quando le dedicò il poster Gismonda. Questo e altri sono ora esposti a Palazzo Reale in una mostra curata da Stefania Cretella e Karel Srp (catalogo 24Ore Cultura), composta in gran parte da opere grafiche, cui vengono accostati dipinti, sculture, mobili e oggetti degli artisti che definiscono uno sfondo dello stile Liberty (diversi italiani: Baccarini, Bistolfi, Chini, Bugatti, Cometti). Sono trascorsi più di trent’anni dalla mostra che Portoghesi organizzò per la Biennale di Venezia del 1984 sulle arti a Vienna al tempo della Secessione. In quella mostra si mostrava l’arte viennese ricostruendo anche situazioni d’arredo, ambienti, per far capire quanto la Secessione – ennesima espressione raccolta sotto il nome del Liberty –, molto più di altre esperienze estetiche (il futurismo o il razionalismo, per esempio), sia uno stile-epoca. Una sorta di Weltanschauungestetica. Se di stile internazione si vuole parlare, questa definizione calza assai meglio al Liberty che al razionalismo. Sebbene per molti decenni si siano avvertiti gli effetti dell’onda lunga che il razionalismo ha prodotto dopo la Grande guerra, in realtà esso non si è mai codificato dentro un’estetica compiuta. Come ogni tentativo di fare tabula rasa del passato, non il razionalismo ha saputo realizzare veramente, sia pure per un lasso di tempo contenuto a qualche lustro come il Liberty, un vero stile-epoca; fu soltanto un linguaggio, questo sì, ma non uno stile che abbia informato di sé una gran parte dell’ambiente umano del suo tempo. Il Liberty ha lasciato architetture, arredi d’interni e urbani, dipinti, disegni, sculture, composizioni sonore, forme editoriali immediatamente collocabili in un tutto, e la sua storicità è avvertibile a colpo sicuro, perché nasce e muore in un arco temporale preciso che corrisponde a un sentire diffuso.Mucha era di origini ceche, una psiche incline alla visionarietà, sensibile allo spiritualismo – che può declinare nell’irrazionalismo –, affiliato alla massoneria (con quella sfumatura esoterica e magica che si collega ai misteri della natura), uomo della terra e fabbro di sostanze costrette con energica leggerezza in linee e forme fiorite (più che floreali), che hanno la singolare qualità di rimanere sulla superficie. La bidimensionalità pura, senza profondità o una dimensione psichica. Estetica assoluta, lontana dalla vita. Infatti, la sua opera è sostanzialmente un’opera grafica. Se Warburg aveva dedicato studi alla figura di Flora nell’arte rinascimentale fiorentina, alla donna dai capelli e le vesti mosse dal vento, ritrovando il tema anche nella Gradiva di Jensen (novella che risale al 1903 e che l’autore definiva una 'fantasia pompeiana', in realtà ispirata a un bassorilievo dei Musei vaticani); se colei 'che avanza', a cui anche Freud dedicò qualche anno dopo un celebre saggio, è il perturbante che nel femminile si manifesta come energia irriducibile, capace di creare e di distruggere, ma in quello scatto primitivo diventa l’espressione pura della vita; ecco, se la donna 'mobile' era per Warburg la carica primordiale che precede ogni riduzione della vita alla cultura, la linearità di Mucha, spesso applicata al tema femminile, invece è l’esatto contrario, è la celebrazione statica della bellezza umana, la sua equiparazione a ornamento di uno stile, che con Warburg, e forzando un po’ la mano, potremmo definire à la franzese, cioè uno stile sovrastrutturale, superficiale, estetizzante che nasconde e imprigiona l’energia vitale invece di liberarla, celebra il divismo anziché il divino, e si può considerare un sintomo estetico della finis Europae. Mucha ha lasciato anche numerose fotografie (non esposte in mostra), dove questa riduzione dell’immagine a una idea di 'decoro' tipicamente perbene e borghese si manifesta maggiormente proprio quando ha per soggetto figure femminili e nudi. Mucha difficilmente sbaglia. Era in grado di produrre centinaia di immagini ogni anno, tutte diverse e tutte sostanzialmente identiche. Questo ha lasciato il segno, beninteso, lo stile Mucha è Art Nouveau ed è personale al tempo stesso, inconfondibile, ma si potrebbe anche dire 'vista una viste tutte'. Milano, Palazzo RealeALFONS MUCHA E LE ATMOSFERE ART NOUVEAUFino al 20 marzo
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