martedì 4 agosto 2015
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Ti affacci dalla feritoia, dietro i sassi e i sacchi di sabbia, e tra i fili d’erba intravedi il crinale che scende verso Alano, e la bianca ferita del Piave. Una vista magnifica, oggi. Una vista terribile un secolo fa. Laggiù nella «stretta di Quero» i tedeschi ammassavano truppe per tentare l’assalto al Grappa, il cuore della linea difensiva italiana. Il Monte Palon nell’estate del 2015 è un crinale erboso battuto dal sole. Tra novembre e dicembre del 1917 era una cresta martoriata, battuta dalle artiglierie nemiche. Tempi remoti. Eppure non è difficile immedesimarsi nei soldati della Quarta Armata che qui resistettero nella decisiva «Battaglia d’Arresto». Merito degli alpini di Possagno che alcuni anni fa si sono rimboccati le maniche per restaurare le trincee, le gallerie e i baraccamenti, un lavoro titanico e meticoloso che fanno del Monte Palon un set cinematografico a cielo aperto; ma soprattutto un prezioso «luogo della memoria» dove salire in silenzio a guardare, ascoltare, immaginare, pregare e ricordare. Occorre avere una discreta gamba per percorrere i mille metri di trincea che sale zigzagando dai 1205 metri – dove si trovano il rifugio, la grande croce (eretta ai primi del ’900, danneggiata da un fulmine e riedificata nel 1964) e soprattutto il magnifico monumento all’alpino, realizzato con frammenti di granata, che con il braccio teso indica Cima Grappa – fino ai 1306 metri della vetta. Il Palon era gli occhi del Grappa. Da qui la vista sulla pianura e sugli schieramenti austro-ungarici e tedeschi era perfetta. Da qui veniva diretto il tiro delle artiglierie ben nascoste nel cuore di Cima Grappa. Il Palon era una vera fortezza, con artiglierie, bombarde, nidi di mitragliatrici e soprattutto tanti posti di osservazione. Più giù, verso il Grappa, sul Monte Tomba gli schieramenti vennero a contatto combattendo all’arma bianca. Sul Palon nessuno riuscì ad arrivare, anche se a provarci fu il tenente Erwin Rommel, già eroe di guerra, protagonista dello sfondamento di Caporetto con la tattica che avrebbe riproposto nel 1942 in Nordafrica: attaccare, attaccare sempre, attaccare di sorpresa, sconcertare il nemico facendogli credere di essere in minoranza e senza speranze. Nel suo diario Rommel annota i vani tentativi di prendere il Palon, «spina dorsale» della difesa italiana, e dilagare in pianura; perché il Piave, con la sua piena e le cannoniere che ne battevano la foce, era invalicabile; e l’Altopiano di Asiago vantava difese munitissime. Il Grappa invece... Bisogna camminare per questo tratto perfettamente restaurato di trincee per rivivere quei mesi, dall’autunno 1917 all’autunno 1918. Avventurarsi, meglio se con una pila, nei cunicoli bui e gocciolanti, che ai soldati apparivano un rifugio sicuro, un nido dove rannicchiarsi aspettando che il bombardamento cessasse. Affacciarsi dalla feritoia del bunker, dove la mitragliatrice batteva il crinale. Risalire il solco di sassi, legna, sacchi di sabbia e filo spinato infisso nel suolo. Ammirare la cura estrema, la meticolosità, l’amore di chi ha voluto restituire alla memoria questo luogo di eroismo e dolore. L’idea, dodici anni fa, fu di Luciano Smaniotto e Livio Perisello del gruppo Ana (Associazione nazionale alpini) di Possagno, allora guidato da Sebastiano Favero, dal 2013 presidente nazionale. Idea contagiosa, tanto da entusiasmare anche gli alpini di Alano, Bassano, Treviso, Salò, Feltre e Vittorio Veneto, da cui arrivarono anche due preziosi muli, gli ultimissimi ancora in servizio; dal rifugio a quota 1205 fino alla cima portarono 900 quintali di materiali. Una vera impresa resa possibile dal lavoro volontario: 21 mila ore, pari a 280 mila euro. Anche grazie agli sponsor (Veneto Banca, Settentrionale Trasporti, la Comunità montana del Grappa e i Comuni di Possagno e Alano) per restaurare le trincee sono stati impiegati 40 metri cubi di sabbia, 100 metri cubi di ghiaia, 50 metri cubi di terra vegetale, 300 quintali di cemento, 12 mila chili di ferro e 20 metri cubi di legname. Il risultato possiamo vederlo con i nostri occhi: un gioiello, effettivamente già utilizzato per ricostruzioni e film, che ha pochi uguali sulla linea del fronte e ha valore doppio perché frutto della passione degli alpini locali. Arrivarci è facile. Si sale da via Molinetto fino al rifugio e poi a piedi, fermandosi ai numerosi pannelli che spiegano il momento storico, come funzionavano le trincee, i segreti del filo spinato... Da lassù, raggiungere Cima Grappa con il suo Sacrario è semplice. Le strade sono sempre quelle di allora. E se Grappa, Palon e Tomba poterono resistere, fu perché il tanto vituperato Cadorna, dopo l’offensiva austro-tedesca del maggio 1916 (la Strafexpedition, la «Spedizione punitiva» contro i 'traditori' italiani), ebbe la lungimiranza di voler fortificare Grappa, Palon e Tomba, realizzando strade (quella principale di 26 chilometri che porta a Cima Grappa porta il suo nome), teleferiche e mulattiere, che nel 1917 furono decisive; bucherellando la cima (i 5 chilometri della Galleria Vittorio Emanuele III sono in gran parte visitabili) e realizzando le trincee. L’alpino di ferro martoriato che dal Palon indica Cima Grappa ricorda tutto questo. Morti di qua e di là, dolore indicibile, giovani gettati e perduti. Il percorso della memoria serve appunto a ricordare per non ripiombare più in incubi come quello. Con l’aria che tira, con tanta smemoratezza esibita da molti con stolido orgoglio, le trincee del Monte Palon avrebbero bisogno di tanti, tantissimi pellegrini silenziosi.
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