domenica 5 aprile 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Un libro in forma di vita, una vita in forma di libro: tali, in perfetta 'consustanzialità', i Saggi di Montaigne (1533 - 1592) che suggellano il Rinascimento europeo: «Così, lettore,  sono io stesso la materia del mio libro» (Libro I, Al lettore); «Io già non ho fatto il mio libro più che il mio libro non abbia fatto me, libro consustanziale al suo autore, […] membro della mia vita» (II, 18). Così «tutti mi riconoscono nel mio libro, e il mio libro si riconosce in me» (III, 5).  Nutrito dei classici, ma anche di Dante e dei nostri autori del Cinquecento (citati spesso sono l’Ariosto e il Tasso), ponendosi nel solco dell’ironia erasmiana, Montaigne ci lascia il ritratto di un’età in continua contesa di opinioni, in dissidio religioso, ricca di commentatori, chiosatori, avara di 'autentico': «C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda. Tutto pullula di commenti; di autori, c’è grande penuria. La principale e più illustre scienza dei nostri tempi, non è forse saper comprendere i sapienti? Non è questo il fine comune e ultimo di tutti gli studi? Le nostre opinioni s’innestano le une sulle altre» (III, 13: Dell’esperienza). È stato spesso definito un erede dello scetticismo; ma egli ha cercato, con sobrietà, l’agio della naturalezza («Affidarsi nel modo più semplice alla natura, è affidarsi al modo più saggio», III.13), come nel celebre esempio sulla 'natura d’amore': «Le scienze trattano le cose troppo finemente, in un modo troppo artificiale e distante dal comune e naturale. Il mio valletto fa l’amore e ben l’intende. Leggetegli Leone Ebreo e Ficino: si parla di lui, dei suoi pensieri e azioni, e, per l’appunto, non capisce nulla. […] Se io fossi del mestiere [cioè filosofo], naturalizzerei l’arte tanto quanto essi artificiano la natura. Lasciam da parte, insomma, Bembo e Equicola» (III, V: Su dei versi di Virgilio). Scrutatore di se stesso e della propria coscienza, ha pure inteso che pluralità è spesso opinione, e la libertà d’esame sconfina in orgoglio e vanità di capriccio (si veda il capitolo XIX del libro II: Della libertà di coscienza), come nelle recenti 'secessioni' dottrinarie della Riforma: «Ho visto in Germania che Lutero ha lasciato altrettante divisioni e dispute sull’incertezza delle sue opinioni, e più, di quante ne abbia sollevato sulle Sante Scritture. La nostra contesa è verbale. […] La questione è di parole, e si soddisfa allo stesso modo. Una pietra è un corpo. Ma chi insistesse: 'E che cosa è corpo?'. 'Sostanza'. 'E che cosa sostanza?', e così via, finirebbe per ridurre chi risponde al termine del suo calepino. Si cambia una parola con un’altra parola, e spesso più sconosciuta» (III, 13). In questo disincantato esame della nostra vanità, Montaigne preferisce all’ardore della novità la quieta adesione - come già Erasmo - alla consuetudine prodotta dall’uso di generazioni, l’umiltà dell’obbedienza: «Dirò soltanto ancor questo, che l’umiltà e la remissione sole possono dar forma a un uomo per bene. […] La prima legge che Dio impartì all’uomo fu una legge di pura obbedienza, un comandamento nudo e semplice nel quale l’uomo non aveva nulla da conoscere o disputare; per questo obbedire è il principale ufficio d’un’anima ragionevole. […] E per questo ancora il non voler troppo sapere ci è tanto raccomandato dalla nostra religione. […] Del resto sembra che la natura, per consolarci del nostro stato miserabile e fragile, non ci abbia dato in lascito che la presunzione» (II, 12: Apologia di Raimond Sebond). Pascal e il suo 'roseau' debbono molto a Montaigne, a quel suo dipingere il nostro andare come un «barcollare d’ubriaco, titubante, pieno di vertigine, informe, come cannucce che l’aria fa volteggiare a caso, a piacimento suo» (III, 9: Della vanità). Anticipando ancora Pascal e compiendo il lascito dei paradossi d’Erasmo, altrettanto Montaigne è sferzante sulla nostra condizione: «La nostra propria e peculiare condizione è quella d’essere tanto ridicoli quanto risibili» (I, 50: Di Democrito ed Eraclito) che affascinato e intenerito sul nostro vagare - baluginio d’un istante - nella notte perenne: «perché prendiamo noi titolo di 'essere' da questo istante che non è che un’ 'éloise' nel corso infinito di una notte eterna […], la morte occupando tutto l’avanti e tutto il dietro di questo momento e una buona parte ancora del nostro istante stesso?» (II, 12). E altrove chioserà sconsolato: «Noi non siamo che vuoto cavernoso » e la nostra voce è vento (II, 16: Della gloria); e vuoto ancora è il nostro essere: «Non c’è creatura così vuota e bisognosa qual tu sei, tu che abbracci l’universo e non sei che lo scrutatore senza conoscenza, il magistrato senza giurisdizione, e in fondo il grullo della pantomima» (III, 9). Per questo egli ama una vita appartata, ammira una «bellezza delicata e nascosta», un volto nel quale traspaia «una segreta luce» (III, 12: Della fisionomia): Montaigne va letto in tale raccolto silenzio, mentre ripone il poco che ci è proprio nel «paniere dell’anima» (ivi) quando il mondo va a caccia di sensazioni e riempie una «bisaccia di provvigioni sconosciute » (ivi)- cercando il quieto ordine del quotidiano: «Le più belle vite sono, a mio avviso, quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, e senza miracolose stravaganze. Certo la vecchiaia ha un po’ bisogno d’essere trattata più teneramente. Raccomandiamola a Dio, protettore di salute e saggezza, perché sia serena e affabile» (XIII, 13).  Sono le ultime parole del trattato, alle soglie del congedo dalla vita: pochi anni prima, tornando dal suo viaggio in Italia, era passato da Loreto, e nella celletta del santuario della Vergine aveva fatto appendere un ex-voto in argento, con il ritratto della Madonna, di sé e della moglie e della figlia; lì aveva preso - ricorda nel diario - la sua Pasqua [1581], contemplando la Santa Casa e i suoi miracoli, le devozioni, i lavori fatti gratis «per aver parte alla Grazia». In quel «privilegio di libertà» che era stata «la fedeltà del silenzio» (III, 13).
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: