domenica 1 maggio 2016
Alla confluenza di tre continenti è per sua natura una fucina di traffici economici, movimenti demografici e scontri politici Lo è stato anche fra XVI e XIX secolo, quando la scoperta dell’America sembrava doverlo mettere fuori scena.
Mediterraneo, un mare di inquietudini
COMMENTA E CONDIVIDI
Il Mediterraneo sta tornando con forza 'di moda', anche se non sempre e non del tutto in un contesto facile. Eravamo abbastanza abituati all’idea che nell’età moderna l’asse economico e commerciale si fosse spostato dal mare nostrum al dominio degli oceani: ma già a partire dal taglio dell’istmo di Suez nel 1869, il non più chiuso bacino mediterraneo era tornato area di scorrimento di un imponente traffico navale. A partire dal secondo dopoguerra, la crescita esponenziale del traffico aereo ha senza dubbio ridimensionato quello marittimo, senza tuttavia poter giungere a sostituirlo, specie per i carichi voluminosi. Ma le prospettive del 'risveglio arabo' prima, quindi i pericoli del terrorismo islamista, infine la problematica legata alla 'nuova guerra fredda', hanno imposto una nuova attenzione internazionale sul Mediterraneo: al punto che ormai quella che era la North-Atlantic Treaty Organization, la Nato, sta con ogni evidenza trasferendo il suo nucleo molto a sud-est di quelle che erano le sue originarie prospettive.  La storia non deve mai attualizzarsi; d’altro canto, essa è sempre storia contemporanea. È un fatto obiettivo che l’attenzione sull’oggi provoca automaticamente una crescita di domande legate al passato. Si torna quindi a Fernand Braudel, il quale dimostrò, in un’opera ormai classica, che, nel secondo Cinquecento, non era del tutto vero che le rotte oceaniche avessero impoverito ed esautorato il vecchio mare interno nel quale tre continenti s’incontrano. Più di recente, David Abulafia è tornato sull’argomento con il suo monumentale Il Grande Mare, modificando profondamente le prospettive braudeliane, ma anche valorizzandone quella che ne era stata a suo tempo la portata rivoluzionaria.  Il Mediterraneo fra i secoli XVI e XIX (il Canale di Suez avrebbe cambiato le cose), fu comunque un’area economicamente e commercialmente impoverita a causa dell’affermarsi dei traffici atlantici, ma anche dell’insicurezza dovuta al duello navale tra Sacro Romano Impero (e più specificamente Monarchia di Spagna) e sultanato ottomano d’Istanbul, al quale parteciparono in qualche modo anche altre potenze europee, a cominciare da una Venezia spesso ambigua nelle sue posizioni riguardo al Turco e da una Francia che, invece, in senso antiasburgico finì quasi costantemente per appoggiare, più o meno direttamente, gli ottomani. Frattanto, le città portuali mediterranee continuavano la loro attività mercantile, disturbate però dalle guerre abbastanza frequenti nonché dall’attività corsara di segno opposto, protagonisti della quale erano da parte musulmana i principati corsari turchi e maghrebini, da parte cristiana le marinerie degli Ordini di Rodi (poi di Malta) e di Santo Stefano.  L’incertezza e la fluidità erano caratteristiche del Mediterraneo cinquesettecentesco: un mare di mercanti, ma anche di corsari e naturalmente di 'convertiti' (che, visti dalla parte della fede che abbandonavano, diventavano 'rinnegati'); mare di marinai che, catturati e venduti schiavi, finivano al remo delle galee cristiane o musulmane, ma potevano anche diventare schiavi domestici e - almeno nel mondo musulmano - fare perfino carriera. Il nostro riconosciuto decano degli studi su quest’argomento, Salvatore Bono, ha oggi raccolto molti decenni di ricerche in un grosso e bellissimo libro, Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), edito dal Mulino di Bologna e che costituisce una lettura affascinante, una vera e propria cavalcata avventurosa tra guerrieri, pirati, prostitute, fuggiaschi, governanti, servitori, concubine, con tratti mozartiani e rossiniani e dove a un certo momento ci s’imbatte anche in uno schiavo d’eccezione, Miguel de Cervantes de Saavedra.  È invece un giovane storico specializzato nei due secoli-cerniera tra medioevo e Rinascimento, il Quattro-Cinquecento, a guidarci alla scoperta della 'crociata dopo le crociate'. Marco Pellegrini, dell’Università di Bergamo, ci aveva regalato pochissimi anni or sono una corposa monografia sulle crociate che la nostra pigrizia manua-listica ci obbliga a definire 'tardive': difatti, dal momento che siamo soliti schiacciare tra fine secolo XI e fine XIII secolo le famose sette o otto crociate 'classiche' (per quanto si sappia bene che altre ve ne furono: e non solo in Oriente, né contro i soli musulmani), si esita ancora a guardare oltre quei limiti cronologici quando si tratta di esse. È vero che i fortunati studi di Géraud Poumarède avrebbero ben dovuto vaccinarci in materia: ma i vizi sono duri a morire. Ebbene, Pellegrini già nel suo Le crociate dopo le crociate ci aveva mostrato come il grand siècle delle crociate sia stato semmai il 'secolo lungo' tra la battaglia di Nicopoli nel 1396 e il primo assedio ottomano di Vienna, nel 1529. Ma Solimano, il protagonista di quel fatto d’armi che fu tuttavia per lui uno smacco, non depose certo le armi, giocando abilmente tra la guerra sul mare, che riguardava la Spagna di Carlo V, ma soprattutto Venezia, e quella nei Balcani obiettivo ultimo della quale era l’impero.  In entrambi i casi, il grande sultano dovette misurarsi con un avversario davvero degno di lui: Carlo V d’Asburgo, signore di uno smisurato impero che dalle Ande giungeva fino alla Sicilia, al Danubio e alla Moldava. E Marco Pellegrini, riprendendo e in un certo senso portando a termine il disegno avviato alcuni anni fa, si affida di nuovo al Mulino per regalarci ora il suo appassionante Guerra Santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V. Vittorioso a Tunisi nel 1535 ma sconfitto ad Algeri nel 1542, spesso affiancato e consigliato dal suo fido ammiraglio Andrea Doria a sua volta legato da un’occulta brutale amicizia col primo nemico dei cristiani sul mare, Khaireddin 'Barbarossa', Carlo non riuscì mai a stabilire un vero e proprio controllo sul Mediterraneo centrooccidentale, mentre il bacino orientale era egemonizzato da ottomani e veneziani, molto meno nemici tra loro di quanto volessero far credere (ma sovente non lo volevano nemmeno), per quanto molto meno alleati di quanto non li dipingessero altri cristiani.  Del resto, questa storia intricata aveva molti deuteragonisti. Venezia, certo, ma anche il re di Francia, costante ancorché occulto alleato del Turco; la Santa Sede stessa, a volte più ostile alla Monarchia di Spagna di quanto non lo fosse, nella pratica, rispetto al nemico infedele; e il duca di Firenze e Siena quindi granduca di Toscana, con la sua politica mediterranea incentrata su Livorno e aspirante a una corona orientale. Si esce dalla lettura dei due libri di Pellegrini, fra l’altro, con una gran voglia di rileggere sia l’Orlando furioso sia la Gerusalemme liberata: due capolavori nei quali si finge di parlare di Carlomagno e di Goffredo di Buglione mentre in realtà di parla di Carlo V, della Monarchia di Spagna, della lotta contro gli ottomani. E difatti Pellegrini, arrestandosi con la morte dell’imperatore, si ferma in realtà a due passi da Lepanto.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: