venerdì 20 novembre 2015
​​Una mostra a Palazzo Diamanti indaga le orgfini della Metafisica italiana negli anni della Grande Guerra, attraverso l'opera di Giorgio de Chirico.
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Il manichino sta alla pittura metafisica di De Chirico come il vaso, anticamente, è il prodromo della scultura? Può darsi. Il manichino non è soltanto una forma, è un sembiante umano privo di identità, muto per così dire, inespressivo (ma non l’inespressione che Berenson vedeva nelle figure di Piero della Francesca; questa era un silenzio che parlava nelle forme robuste, terragne e tettoniche; in una caviglia, un polso, un busto che, per la struttura, hanno certamente un legame con l’idea di scultura, anche quella “vuota” dei vasi da cui viene la plastica etrusca). Se è un sembiante umano, ma inespressivo, anonimo, ecco che il manichino non è più soltanto una forma astratta per De Chirico, ma il contenuto stesso. Che mondo è quello che il pittore “sogna” negli anni ferraresi in cui fonda la metafisica italiana, cioè tra il 1915 e il 1918? È il teatro una metafisica di guerra? Una metafisica della distruzione? Dove va in scena una apocalisse del senso, ovvero la rivelazione del nonsenso di ogni cosa? Domande che pongono l’“enigma” stesso su cui De Chirico riflette. «E se la vita non foss’altro che un’immensa menzogna? L’ombra d’un sogno fuggevole?», annota in un manoscritto. Il 22 febbraio 1919, venti giorni dopo che Giorgio de Chirico ha inaugurato la sua prima mostra personale in Italia, a Roma nella galleria di Anton Giulio Bragaglia, Roberto Longhi scrive una delle sue idiosincratiche ma memorabili stroncature, che si coagulano in un’immagine: De Chirico è un “dio ortopedico”. Che male ha fatto questa divinità anchilosata? Quello di aver dato forma a una «umanità orrendamente mutila ». O forse di aver ricordato a tutti, mentre i bilanci sulla Grande Guerra, nonostante la vittoria, sono pieni di ferite non cicatrizzabili (e infatti è in queste piaghe che il fascismo infila il suo dito e lo rigira suscitando l’urlo dei tanti reduci che venivano dagli strati più popolari del Paese), ecco, quel manichino ricordava, come un totem, l’immagine dei tanti “militi ignoti” cui toccò la retorica ma modesta iscrizione sulla lapide di un sacrario, e talvolta nemmeno quella.  In fondo, la bellissima mostra che si è appena aperta a Palazzo dei Diamanti ha un titolo esornativo, un po’ ruffiano, e certo non tanto nuovo: De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie. Dopo aver visto la mostra uno dice fra sé e sé: «Chi se ne impipa delle avanguardie ». Paolo Baldacci, che firma il saggio d’apertura nel catalogo ed è oggi uno dei mag- giori esperti di De Chirico, delinea l’itinerario biografico dell’artista – che incrocia le linee dal 1908 fino agli anni di Ferrara (quando, arruolatosi assieme al fratello Andrea Savinio, furono dichiarati entrambi inabili alle fatiche della guerra e vennero destinati a lavori di retrovia negli uffici) – e conclude con una notazione buttata lì, con nonchalanche, quasi fosse lapalissiana mentre è il punto focale dello sguardo retrospettivo che colloca oggi De Chirico in un orizzonte tutt’altro che italiano. Dice infatti Baldacci che quello di De Chirico era un genio «così poco latino, nonostante il gran parlare di classicismo».   Il Mediterraneo di De Chirico non è quello giotttesco e masaccesco di Carrà; non è l’aurorale (o crepuscolare) silenzio delle cose di Morandi, dove le bottiglie e gli oggetti sono come i pani di fecondità delle Madri di Capua tenuti in grembo e offerti come ex voto alla luce; non è il plumbeo e severo struggimento plastico dei costruttori di Sironi; ma, paradossalmente, c’entra poco anche con la psiche destabilizzata che produrrà il Cabaret Voltaire, il dadaismo, e poi con gli sviluppi del surrealismo. De Chirico sente che la guerra è parte dell’uomo, è eroica e malinconica, come il volo dei Dioscuri sui teatri della morte; e per un artista, questo, è uno spreco. De Chirico vuole far emergere dalle cose un segreto che non svela nulla, ma conferma, in realtà, l’idea che il mondo abbia, in sé, poco senso. I quadri dei primi anni Dieci, che precedono il periodo ferrarese, le piazze segnate da ombre che si allungano a dismisura, dove l’umano è parvenza, simulacro, meridiana consegnata a una luce che, in realtà, si rivela demone crudele, dio meduseo e pietrificatore, che odia tutto ciò che si muove, ha vita e vorrebbe rompere lo schema della città ideale nata dal delirio nichilista. La città deserta; l’acropoli fantasma, dove esistono solo riflessi sublunari, oltretombali, inferi. Nessuno vorrebbe vivere, credo, in una città o fra quattro mura come quelle immaginate da De Chirico prima e durante il periodo ferrarese;  la spiegazione forse è semplice: chi di noi preferirebbe stare nel mondo dei propri sogni piuttosto che in quello reale, dove incontriamo dolori, fatiche, malinconie, ma anche gioia, bontà, bellezza, e qualche volta giustizia, tutto ciò che ci fa sperare che un senso ci sia? Potremmo lasciarci convincere – ma per una vacanza breve – a salire sulla zattera colma di strani balocchi dipinta da Savinio, o avventurarsi, come in una favola inquietante, nella sua selva magica (non a caso gli anni in cui, ritornando a Parigi, Savinio comincia a dipingere, sono quelli in cui Thomas Mann ha appena pubblicato La montagna incantata), ma solo pochi istanti, per evitare poi di doverci guardare allo specchio e scoprire il nostro volto trasformato in quello di una civetta, come in un suo autoritratto. Difficilmente, però, si sarebbe tentati di entrare in una prospettiva di De Chirico; c’è troppo di oscuro, insidioso, perturbante, una volontà esplicita di montare un marchingegno che sia, come le vecchie soffitte, o le cantine di una casa misteriosa, un luogo di segregazione e di tortura, un labirinto disegnato con le rovine del mondo reale, da un dio che vuole sacrificare il Minotauro rendendolo pazzo di solitudine. Nessun filo di Arianna.  De Chirico dispone nel suo teatro gli oggetti presi dalla realtà: biscotti, pani, muri, quadri, cavalletti, squadre, regoli, occhi, scogli su cui si eleva la torre del faro, architetture di città, stabilimenti, boschi e corsi d’acqua – splendido l’Interno metafisico (con alberi e cascata) del 1918 –, pesci (sacri), infine tavole anatomiche, busti e manichini... Ma quale terrore ci prende mentre guardiamo queste scenografie del sogno: il «dio ortopedico» eccitò la fantasia linguistica di Longhi, come mai avrebbe potuto il troppo banale Dio ermafrodito di Carrà. Ecco, l’enigma De Chirico è tutt’altro che chiarito; è certo che, come scrive Baldacci, la metafisica italiana (e le altre metafisiche novecentesche) abbia oggi trovato un posto nella storia dell’arte che solo trent’anni fa le veniva negato, un posto di primissimo piano, forse ancor più grande del futurismo; l’atto di risarcimento avvenne già alla fine degli anni Ottanta col crollo delle ideologie e la riabilitazione del “ritorno all’ordine”. Ma questa consapevolezza è soltanto l’inizio di quello che, con Nietzsche, si potrebbe chiamare lo “smascheramento” del «dio ortopedico».
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