mercoledì 9 dicembre 2015
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La mappa non rappresenta il mondo: lo crea. Prima della mappa, il mondo dell’uomo coincide con l’orizzonte che può abbracciare il suo sguardo; poi c’è un di più, un al di là, che è l’orizzonte del suo pensiero, invisibile, intangibile. La mappa è sempre progetto, visione del mondo; mettendo su carta (o su altro supporto) tale visione, ecco che il mondo eccede i confini dell’orizzonte fisico e inizia ad abbracciare quelli del pensiero. La vista si fa visione; la terra, mondo. Nella mappa, l’uomo traspone non solo gli elementi fisici dei quali ha esperienza, ma – nel modo di trasporli, nelle aggiunte simboliche che vi introduce – anche quelli ideali; lo fa da sempre, fin dai primi tentativi di rappresentazione geografica che risalgono addirittura al Paleolitico. È soltanto da poco tempo – se misurato sulla plurimillenaria storia umana –, da dopo il positivismo, che si è imposta nell’immaginario occidentale l’idea che la mappa sia un qualcosa di “scientifico”, rigorosamente corrispondente a una realtà tangibile e misurabile. Ma anche la misura, anche il rigore sono a loro volta elementi ideali, astratti, che plasmano la realtà attraverso la cartografia. Difficile forse rendersene conto, fin tanto che si è immersi in una visione del mondo euro-centrica e tecno-centrica: ma scorrendo la storia della cartografia, come consente di fare il bel volume Le grandi mappe di Jerry Brotton (Gribaudo, pagine 256, euro 24,90), comprenderlo diventa più agevole. Già tra le incisioni rupestri della Val Camonica si trovano rappresentazioni dell’ambiente locale: case, forse campi, bestiame. Mappe votive, pensano gli archeologi, attraverso le quali il mondo dell’uomo viene in qualche modo donato agli dèi, messo in contatto con il mondo trascendente. Questo contatto è una costante della storia della cartografia, e trova la sua espressione più compiuta nella mappa mundi medievale: il mondo assume la forma del corpo di Cristo e la figura perfetta del cerchio, con Gerusalemme al centro. Parallelamente, la mappa azteca di Tenochtitlán di metà Cinquecento colloca nel mezzo l’aquila simbolo del dio Huitzilopochtli. La mappa è così immediatamente sacra, e sacralizza la terra sulla quale l’uomo vive e opera; così al tempo stesso è sempre anche strumentale, mai fine a se stessa. Sul mondo creato dalla mappa gli uomini si muovono, costruiscono e – anche – pensano; un impulso fondamentale allo sviluppo della cartografia è venuto infatti dalle esigenze commerciali e militari, soprattutto la navigazione, ma anche le più pacifiche opere agricole ed edilizie. Nelle carte nautiche del Basso Medioevo e dalla prima Età moderna il mondo è ridotto a una linea costiera, punteggiata di porti, appro- di, scogli; l’entroterra è quasi terra incognita, lasciata in bianco oppure popolata da disegni evocativi tanto del vero quanto del verosimile, indistinti: l’Atlante catalano del 1375 circa, all’avanguardia per l’epoca nella resa dei mari, in terra accosta raffigurazioni di Alessandro Magno e dei Re Magi, la carovana di Marco Polo e gli immaginari re cristiani dell’Africa e dell’Asia. Altre mappe si popolano di animali reali e fantastici, di richiami alle immense ricchezze del mondo ancora da esplorare, di dèi che vegliano sul navigatore, di lussureggianti foreste e ordinati campi coltivati; le città, spesso rappresentate in vista a volo d’uccello, mostrano le loro case una a una, a celebrazione della ricchezza e della laboriosità dei loro abitanti. Alle mappe i Palazzi Vaticani dedicano un’intera galleria, voluta da papa Gregorio XIII (1572-1585); alle stesura di mappe si dedicò ogni civiltà umana, dal mondo arabo alla Cina, fino ai più remoti atolli del Pacifico dove le “cartine” sono fatte di bastoncini (a indicare le rotte) e le isole sono conchiglie. La cartografia non ha mai smesso di creare la realtà, nemmeno ai nostri giorni. Nel senso più immediato, strade, edifici, proprietà “nascono” sulle mappe e solo dopo diventano oggetti tangibili; s’inverte la relazione oggetto-simbolo, con il primo che precede il secondo. Ma la funzione creatrice della mappa è più profonda: non si limita a generare una striscia d’asfalto o una pila di mattoni, ma induce una nuova o diversa visione del mondo. Negli anni Settanta la Carta di Peters, semplicemente modificando la proiezione in modo da rispettare le aree più delle forme, insegnò al mondo occidentale come Europa e Nordamerica non fossero altro che una porzione marginale e periferica del globo, dominato invece da quello che allora si chiamava ancora comunemente Terzo mondo. La Mappa dell’artista Alighiero Boetti, un mondo-arlecchino fatto di tante toppe colorate come le bandiere degli Stati, mostrò la frammentazione politica. I cartogrammi elaborati da Danny Dorling negli ultmi anni distorcono la cartina per dare più spazio ai Paesi maggiormente rappresentativi di un dato fenomeno (popolazione, mortalità, perfino indici di lettura e diffusione delle motociclette). Sulla mappa nascono le nazioni: l’Italia serba dolorosamente la memoria della “linea bianca”, decisa sulla carta dopo la Seconda guerra mondiale e che tagliò in due campi, paesi, perfino case in Venezia Giulia; popoli e nazioni sono stati per secoli sballottati al di qua o al di là di confini astratti. A volte perfino dimenticandosi qualche pezzo: è il caso per esempio della Repubblica di Cospaia, sorta perché nel 1441 Firenze e il Papato sbagliarono a tracciare un nuovo confine. Il paesino di qualche centinaio di anime – lo racconta Graziano Graziani nel suo affascinante Atlante delle micronazioni (Qoudlibet, pagine 376, euro 16,50) – s’affrettò a proclamare la sua indipendenza, che mantenne, sempre dimenticato da tutti, fino a inizio Ottocento. E poi ci sono nazioni che vivono esclusivamente sulla mappa: quelle non (ancora) riconosciute, catalogate da Nick Middelton in Atlante dei Paesi che non esistono (Rizzoli, pagine 232, euro 24,90), e quelle come Utopia o la Terra di Mezzo, che esistono soltanto nella fantasia dei pochi autori e in quella di milioni di lettori. E, naturalmente, sulle mappe.
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