martedì 9 febbraio 2016
​Fu il primo a sollevare il velo di omertà e complicità sulle ecomafie campane: allora inascoltate, oggi le sue denunce appaiono profetiche.
 MANCINI, il martire della Terra dei fuochi
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«Se l’informativa fosse stata presa in considerazione nel 1996 avremmo potuto limitare i danni. Non so perché sia stata sottovalutata. Forse il Paese non era ancora pronto a sapere cosa stava accadendo nella “terra dei fuochi”». Così si sfogava, in una delle ultime interviste, il sostituto commissario della Polizia di Stato, Roberto Mancini. Era il novembre 2013 e l’investigatore stava lottando con tutte le sue forze contro il linfoma che pochi mesi dopo, il 30 aprile 2014, la ebbe vinta sulla sua vita. Un tumore che, scrisse il ministero dell’Interno in risposta ad un’interrogazione parlamentare, era «insorto a seguito delle missioni effettuate tra gli anni 1997 e 2001 nei territori ubicati al confine tra le province di Napoli e Caserta, su incarico ufficiale della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse». Mancini, vittima della “terra dei fuochi”, più di venti anni fa aveva già individuato il sistema di smaltimento illecito di rifiuti industriali, spesso provenienti dal Nord, nelle aree della Campania. Un sistema che vedeva, fianco a fianco, imprenditori, politici, camorristi, sotto l’ombrello della massoneria. Nomi e cognomi che il poliziotto, allora in forza alla Criminalpol di Roma, aveva indicato nelle oltre duecento pagine dell’informativa inviata il 12 dicembre 1996 alla Dda di Napoli, gli stessi che poi sono finiti in tante inchieste in anni più recenti. Ma l’attenzione dell’investigatore, al quale Rai 1 dedica la fiction Io non mi arrendo con Beppe Fiorello come protagonista e in onda il 15 e 16 febbraio, era cominciata ancor prima come dimostra l’informativa che porta la data dell’11 febbraio 1994, quasi sconosciuta. Riguardava l’avvocato Cipriano Chianese, imprenditore dei rifiuti centro di quel sistema illegale, attualmente sotto processo per il disastro della discarica Resit, nel corso del quale è stato ritirato fuori il lavoro del 1996 di Mancini, stranamente finito in un cassetto per tutto questo tempo. «La natura di quest’uomo – si leggeva nell’informativa del 1994 –, poliedrica ed camaleontica, gli consente di muoversi con scaltrezza e spregiudicatezza soprattutto all’interno di certe strutture politiche tentando, verosimilmente, di condizionare l’operato per fini personali o di “clan”, non sempre leciti». Mancini, ben quattro lustri fa, descriveva «quel “patto scellerato”», tra camorra e politica, che garantiva «la possibilità di esercitare un ruolo di indirizzo nelle fasi determinanti e nei momenti decisionali della vita sociale, politica ed economica del nostro Paese». All’interno di questi «il “businness dei rifiuti”», che significa «gestione del trasporto, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti di varia specie». Quel “sistema” che, grazie a intercettazioni e lavoro sul campo, aveva permesso al poliziotto di individuare connessioni, complicità, fino a Roma, fin dentro ai ministeri dell’Ambiente e delle Politiche agricole, e addirittura fin dentro la magistratura. Mancini, infatti, non nasconde questi inquietanti compromessi. Così nella premessa dell’informativa del 1996 evidenzia la scarsa attenzione rivolta dai magistrati inquirenti alle numero- se indagini svolte in dieci anni sulla gestione camorristica dei rifiuti, limitandosi a valutarle solo singolarmente, mentre se fossero state valutate globalmente, perché tutte riconducibili agli indagati dell’informativa, «avrebbero disvelato esaurientemente il sistema affaristico criminale rivolto al traffico dei rifiuti». Mancini evidentemente era molto più avanti, forse incompreso, forse inascoltato, forse ostacolato. La sua analisi della camorra imprenditoriale, rappresentata perfettamente dall’avvocato Chianese, è quella che ormai leggiamo in tanti libri, che emerge in tante inchieste. Oggi. Vent’anni dopo. Lui, nell’informativa del 1994, scriveva «dell’evoluzione compiuta dalle organizzazioni criminali che, allo stereotipo classico del camorrista “guappo e prepotente”, hanno sostituito il più tecnologico “imprenditore” capace, dall’alto di una istruzione superiore e di una certa competenza professionale, di fungere da cerniera tra le formazioni di natura esclusivamente criminogena e gli apparati produttivo- politici presenti sul territorio». Tutto oggi chiarissimo, per il poliziotto lo era già allora. Inascoltato. Solo quando il dramma di quella terra è diventato anche il suo dramma l’attenzione sul commissario Mancini si è finalmente concretizzata. Prima i funerali di Stato, poi il 15 maggio 2014 la medaglia d’oro al valor civile. «Per essersi prodigato – si legge nella motivazione –, nell’ambito della lotta alle ecomafie, con straordinario senso del dovere ed eccezionale professionalità nell’attività investigativa per l’individuazione, nel territorio campano, di siti inquinati da rifiuti tossici illecitamente smaltiti. L’abnegazione e l’incessante impegno profuso, per molti anni, nello svolgimento delle indagini, gli causavano una grave patologia che ne determinava prematuramente la morte». Aveva appena 53 anni Roberto Mancini, poliziotto che davvero non si era voluto arrendere. E che, senza rancore, nell’ultima intervista descriveva così il destino del suo lavoro. «Gli elementi c’erano ma bisognava lavorarci sopra e l’hanno tenuto come fascicolo virtuale in attesa di qualcosa di più pregnante che potesse riportare in auge questa informativa, ma forse è passato un po’ troppo tempo». Per molte cose aveva purtroppo ragione. Molti reati sono finiti in prescrizione, pochi hanno davvero pagato, altri continuano ad operare indisturbati, come ha denunciato pochi giorni fa ad Avvenire l’imprenditore “pentito” Gaetano Vassallo. Forse c’è ancora tempo, ma molto poco, per salvare quella terra. SU DI LUI UNA FICTION E UN LIBRO  Tra gli eroi civili che hanno sacrificato la propia vita per il Paese, Roberto Mancini non è certamente uno dei più noti al grande pubblico. Una lacuna a cui provvedono contestualmente una  fiction e un volume. La prima si intiola Io non mi arrendo e andrà in onda su Rai 1 lunedì 15 e martedì 16 febbraio. Sarà Beppe Fiorello (nella foto) a vestire i panni di Marco Giordano, personaggio di fantasia ispirato al funzionario di polizia pioniere delle indagini sulla Terra dei fuochi e morto di tumore nel 2014. Il libro è invece Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi (Chiarelettere, pagine 168, euro 15,00). Scritto dai giornalisti Luca Ferrari e Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, ripercorre la vita del poliziotto e la sua volontà di portare alla luce la sua denuncia, rimasta per anni chiusa in un cassetto, nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria.
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