giovedì 1 settembre 2016
Magrelli, il poeta dello schermo tv
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Si dichiara appassionato anche – ma non solamente – per ragioni di studio. «Del resto, l’impressione che qualcosa di strano stesse accadendo l’ho avuta proprio in un tempio del sapere», dice il poeta Valerio Magrelli, che al Festival della Mente di Sarzana sarà protagonista di un singolare incontro sul «continente emerso» delle serie tv. Al suo fianco, a ribadire la serietà dell’impostazione, il giornalista e divulgatore Andrea Gentile, autore per Codice di un saggio su La scienza delle serie tv (pagine 176, euro 18,00). «Ma anch’io ho preparato i miei schemi, la mia classificazione per generi», insiste Magrelli. Il quale, oltre che essere poeta e francesista di rango, vanta un’esperienza diretta nel cinema al seguito del leggendario Federico Fellini (si veda, a proposito, il suo recente Lo sciamano di famiglia, Laterza, pagine 194, euro 18,00).Torniamo indietro di un episodio?«Al tempio del sapere, giusto. Nei primi anni Novanta ero alla Normale di Pisa per tenere una serie di lezioni. A un certo punto, verso l’ora di pranzo, nei corridoi si fa il deserto. “Ah, già”, fa uno dei professori e mi guida verso una saletta dove, davanti al televisore, stavano accalcati non meno di cinquanta ragazzi. Ci sarà una partita, ho pensato. E invece davano un cartone animato di cui non sapevo niente. Erano I Simpson».Ne è rimasto conquistato pure lei?«Non subito, lo confesso, per quanto adesso possa considerarmi un buon conoscitore delle peripezie di Homer e famiglia. La serie che mi ha davvero convinto è stata un’altra».Quale?«I Soprano, che ho cominciato a guardare senza neppure rendermi conto che fosse una serie, tanta era la complessità e la ricchezza del racconto e dei personaggi rispetto a quella che, fino a quel momento, era la mia idea di telefilm».Che cosa è successo da allora?«Quello che è successo a molti spettatori, credo. In modo prima graduale e poi sempre più impetuoso, le serie tv hanno quasi completamente soppiantato il cinema nei discorsi tra amici. Al posto di “hai visto quel film?”, sempre più spesso ci si sente chiedere “hai visto quella serie?”».E lei come risponde?«Di sì, nella maggior parte dei casi. Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un elenco delle cento serie più importanti nella storia delle televisione e mi sono reso conto di conoscerne non meno di ottanta. Una parte del merito va ai miei figli, che mi aiutano a tenermi aggiornato. Ma c’è anche il fatto che sono nato nel 1957, pochi mesi dopo che la Rai aveva iniziato a trasmettere Rin Tin Tin, che dei telefilm è considerato il capostipite. Siamo pressoché coetanei, le serie ed io».Ma che cos’hanno di così interessante?«Dal punto di vista storico, per cominciare, le serie tv rappresentano la vera continuazione del feuilleton ottocentesco. Ogni volta che assisto allo spettacolo dei fan a caccia di anteprime su questo o quell’episo- dio, mi viene in mente la frenesia che si scatenava nei porti statunitensi all’arrivo delle navi che dalla Gran Bretagna portavano le nuove dispense dei romanzi di Dickens. Era una specie di arrembaggio, con le scialuppe cariche di lettori intenti a carpire qualche indiscrezione». Oggi, invece, le notizie si cercano in rete.«Ecco, questo è l’aspetto che, personalmente, considero meno positivo. Specie tra i giovani, lo schermo del computer portatile sostituisce di norma quello del televisore. Se aggiungiamo il particolare che, il più delle volte, l’audio si ascolta attraverso le cuffie, dobbiamo ammettere che i processi di isolamento dello spettatore e di frammentazione del pubblico si sono ormai imposti in modo pressoché irreversibile».Alle serie tv, dunque, lei si è avvicinato per motivi sociologici?«Non solo, e non principalmente. Il dato più rilevante è di ordine narrativo, se non addirittura letterario. In questo campo gli sceneggiatori godono di una libertà assoluta, che permette loro di affrontare questioni morali di straordinaria attualità, ma anche di mettere in scena un gioco raffinatissimo di citazioni e rimandi interni, fino al cosiddetto crossover, l’incrocio fra due serie differenti. Sullo sfondo ci sono sempre forti investimenti di carattere commerciale o addirittura mercantile, eppure una buona serie tv riesce a stupire anche facendo economia di mezzi. Mi viene in mente un episodio di Breaking Bad girato in un momento in cui le risorse scarseggiavano e incentrato sulla presenza di una mosca nel laboratorio chimico in cui traffica il protagonista. L’insetto non deve contaminare il preparato, la tensione sta tutta qui. Il risultato è un piccolo capolavoro narrativo».Insomma, le serie tv hanno scalzato i romanzi? «Non sarei tanto drastico. La mia impressione è che tra i diversi linguaggi narrativi finisca per stabilirsi una certa circolarità, una certa osmosi e collaborazione. È già successo in passato, quando la tecnica del montaggio è passata dal cinema alla letteratura. Quella a cui stiamo assistendo è, in sostanza, una grande migrazione di forme narrative da un genere all’altro, da un ambito artistico all’altro. L’aspetto specifico delle serie sta semmai nella loro capacità di costruire un mondo autonomo e coerente nel quale, come spiegano gli studiosi, lo spettatore finisce per abitare».Il suo indirizzo preferito qual è? «Ho talmente amato la prima stagione di True Detective da lasciarmi impressionare perfino dalla seconda, che in tutta franchezza è proprio bruttina. Ma so che, dai risultati di un sondaggio tra i fan, il titolo di miglior serie di tutti i tempi è andato a The Wire. Un motivo ci dovrà pur essere, no? Quasi quasi, appena possibile, mi concedo un ripasso».
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