giovedì 19 febbraio 2015
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Sì, la Libia ci interessa, la Libia interessa gli italiani per motivi propriamente culturali, al di là delle imprese coloniali iniziate da Giolitti nel 1911 e proseguite fino alla Seconda Guerra mondiale con molte ombre, ma anche, bisogna pur dirlo, con non poche luci. È Alessandro Spina (19272013) lo scrittore che ha proposto una lettura dell’incontro tra civiltà araba e civiltà europea attraverso undici romanzi poi confluiti nel grande ciclo coloniale I confini dell’ombra (Morcelliana), Premio Bagutta 2007. Di Spina ormai possiamo scrivere il vero nome, Basili Khouzam, definitivamente al riparo da non immaginarie ritorsioni di Gheddafi che aveva nazionalizzato l’impresa di famiglia a Bengasi, costringendolo all’esilio (peraltro dorato) in Franciacorta in una villa seicentesca di cui gli eredi, alla sua morte, si sono sbrigativamente sbarazzati. Ebbene, Spina rifiutava di parlare di politica preferendo affidare la sua testimonianza alle voluminosissime carte consegnate alla Biblioteca cantonale di Lugano, con il vincolo di non aprirle prima del 2025 o giù di lì. Dalla sua conversazione, tuttavia, qualcosa trapelava: per esempio l’auspicio che qualcuno scrivesse la storia coloniale italiana vista anche dalla parte dei resistenti libici, e non celava il suo rispetto per il malinconico e civilissimo re Idris che il 1° settembre 1969 venne deposto dal colpo di Stato di Gheddafi, quando aveva già deciso, per ragioni di salute, di abdicare in favore del nipote a partire dal 5 settembre. In un’intervista raccolta da Alessandro Rivali per  Studi cattolici (giugno 2010), Spina aveva così spiegato la centralità della figura dell’ufficiale nei suoi romanzi: «I miei romanzi hanno per scenario l’Africa del nord al tempo del colonialismo: l’ufficiale era necessario, garantiva la continuità della colonia; l’importanza dei militari non è una mia bizzarria, ma un fatto oggettivo. Un romanzo racconta sempre il conflitto, il dialogo fra l’uomo e una legge, un codice, una società, un governo… Il militare degli anni ’30 aveva ancora un codice che doveva osservare. Oggi incontriamo l’altro in maniera piuttosto banale, l’ufficiale in colonia trovava l’altro da sé con le armi in mano, non sceglieva la colonia, ma vi era mandato. Cristina Campo mi disse: 'I suoi ufficiali si inventano delle regole che poi seguono nel modo più rigido'. Qualcuno mi ha detto in tono polemico: 'Ma dove ha mai visto degli ufficiali che parlano in questo modo?'. Io rispondo: 'A me non interessa per nulla il realismo', mi importa piuttosto in quelle circostanze, in quell’ambiente, in quelle coordinate storiche, quale sia 'il possibile' del mondo dei personaggi. Il romanziere non narra quello che 'è', ma quello che 'è possibile'». Nel 'possibile' di Spina c’era anche un incontro fra islam e cristianesimo (egli era cristiano maronita). Un incontro certamente non sincretistico, ma come invito ad affrontare la reciproca conoscenza. Su Humanitas (n.5-6, 2010) Spina pubblicò un’amplissima recensione al volume curato da Sabino Chialà, I detti islamici di Gesù  (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 2009), recensione che verrà posta a sigillo dell’ultimo suo libro, L’ospitalità intellettuale (Morcelliana, 2012). In quelle pagine fa capolino una testimonianza personale: «Ho vissuto la metà della mia vita in un Paese islamico senza minoranza cristiana, in rapporto, per la natura del mio lavoro, con le varie classi sociali. Non dico che nella conversazione con eccellenti amici islamici ritrovassi la ricchezza di riferimenti cristiani del libro di Chialà, ma il flusso della conversazione era naturale, con un sottinteso rispetto reciproco per la religione dell’altro mai smentito; neppure da una maestranza operaia per intero musulmana, con la quale, capita ovunque e in ogni complesso produttivo, talvolta si hanno contrasti vivaci, i sindacati hanno dove che sia una tendenza a uscire dai limiti istituzionali. Eppure mai il mio diverso credo religioso è stato coinvolto nella polemica: per questo mi fa orrore ascoltare persone qui da noi che in vane e oziose filippiche buttano dentro tutto». E ancora: «Si è mai chiesto il nostro lettore dove stia il confine fra la fede e la fedeltà (l’amore) per una tradizione di cultura (cristiana)? È stato capace di tracciarlo sempre? Non ci si distingue per ciò da cui ci si stacca ma grazie a ciò che comunque ci appartiene, in un universo mentale, diverso per ogni mente, per merito esclusivo del singolo malgrado le apparenze». Già, per dirla ancora con Spina, «tutto appartiene a tutti ». E la Libia, non solo per lui e per noi, è innanzitutto Cirene, la città fondata dai greci e poi colonizzata dai romani, le cui impressionanti rovine biancheggiano sotto il sole mediterraneo. Cirene, distrutta dai barbari com’è raccontato nella Catastasi del vescovo Sinesio (370-413) che Spina splendidamente tradusse nel 1979. Che ne è, e che cosa ne sarà della Venere di Cirene che dal 1913 illuminava il Museo Nazionale Romano e che il presidente Berlusconi improvvidamente 'restituì' al colonnello Gheddafi nel 2008?
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