giovedì 5 novembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Dopo quelle indirizzate a Pio XII e a Giovanni XXIII, a completare l’epistolario con i papi, arrivano in libreria le lettere di La Pira a Paolo VI. Non tutte: 223 su oltre 1100 missive, scelte e introdotte da Andrea Riccardi e Augusto d’Angelo curatori di Abbattere muri, costruire ponti (edizioni San Paolo, pagine 888, euro 35, il libreria da metà novembre), fedele rappresentazione dei temi indicati all’amico divenuto papa da un uomo che leggeva la Bibbia e i segni dei tempi, prefigurando una Chiesa «pilota della storia». Gli incontri fra i due – dopo un primo contatto nel ’22 – risalgono ai primi anni 30. Montini era l’assistente della Fuci e lavorava in Segreteria di Stato. La Pira, approdato a Firenze dalla Sicilia, insegnava e partecipava ad attività caritative. La loro amicizia si sarebbe rafforzata a tal punto che Montini nel ’43 avrebbe aperto casa sua al “professorino” fondatore di “Principi” allontanatosi da Firenze dopo l’occupazione nazista, conservandosi negli anni successivi. Con La Pira alla Costituente e al Governo, poi nel ’51 sindaco nel capoluogo toscano “perla del mondo”, e di nuovo in Parlamento. Mentre Montini, com’è noto, dopo il trasferimento nel ’55 alla guida dell’arcidiocesi ambrosiana, avrebbe continuato l’opera di Giovanni XXIII come suo successore portando a conclusione nel ’65 quel Concilio agli occhi di La Pira «lo strumento più prezioso ed adeguato per realizzare (sia pure in prospettiva) il fatto fondamentale che definisce la nuova epoca storica della Chiesa e dei popoli: l’unità della Chiesa!» (così a Paolo VI il 9 luglio ’63).  Un rapporto di amicizia, dunque. Documentato dai toni confidenziali della corrispondenza, dal sostegno – sempre più prudente – di Montini all’impegno lapiriano per il dialogo e la pace: «Ammiro il tuo ottimismo – gli scriveva il 28 marzo ’57 – che mi sembra davvero un atto di fede nella virtù intrinseca del cristianesimo di guadagnare a sé uomini, che sembrano tanto poco disposti a comprenderlo e ad accoglierlo». E cementato – spiegava La Pira all’arcivescovo di Milano il 4 settembre ’59 – da un legame non solo “soggettivo”, ma anche “oggettivo”, coinvolgente «la Chiesa e la sua avanzata nel mondo», costruito per investire – aggiungeva – «la parte di vocazione e responsabilità che ciascuno di noi ha... nel corpo della Chiesa e delle nazioni». Certo, poco dopo Montini, cardinale ,avrebbe manifestato anche come la sua sensibilità ecclesiastica e quella carismatica lapiriana non coincidessero («...alcune volte il suo modo d’interpretare i fenomeni del nostro tempo in senso teologico e teleologico mi sembra troppo ottimista», così il 21 marzo ’61). Come spiega Riccardi, il disegno montiniano per il futuro della Chiesa «era chiaramente riformatore e richiedeva gradualità e creazione di consenso»; per La Pira, invece «il tempo della decisione e dell’intervento era l’oggi e subito». Inoltre, da parte di Montini, non mancarono «rammarico» e «riserva su metodi e fatti» per il ruolo del sindaco di Firenze nella formazione della giunta di Centro-sinistra sinistra del ’61. E su questo punto nel saggio introduttivo offre ragguagli interessanti Augusto d’Angelo. Che ricorda sia il La Pira già annoverato dal cardinal Ottaviani tra i «comunistelli delle sagrestie», sia quello al contempo «sponsor e vittima del Centro-sinistra», leggendo il rapporto emblematico tra l’arcivescovo di Milano, e il rieletto sindaco di Firenze nella temperie del tempo: tra contrarietà e perplessità in seno alla gerarchia sui nuovi orientamenti, ma con un dialogo politico che si era aperto varchi. Certo più ci si inoltra nelle lettere, più si palesa il respiro di un cattolico che vive una dimensione del mondo senza frontiere, lanciato in iniziative a servizio della Chiesa benché mai integrate in quelle della diplomazia vaticana. Paradossalmente però è proprio l’elezione di Montini al papato, a segnare una distanza inedita rispetto al tempo dell’amicizia.  Scontata la delusione del professore, autore, a un certo punto, di una corrispondenza a senso unico. «Peccato, Beatissimo Padre, (e permettete che filialmente io lo dica) che non ci si possa mai vedere e non si possa mai parlare (a voce) di tante cose, tanto essenziali nella storia presente della Chiesa e del mondo », scriveva La Pira il 21 giugno ’68 riferendosi al dialogo sovietico-americano, all’evoluzione in Medio Oriente, al suo sogno di «Pietro arbitro tra Israele e Ismaele: Pietro ponte di pace fra tutta la famiglia di Abramo». In realtà, tracce di incontri riservati di Paolo VI con La Pira qui si scoprono («Eppure – scriveva nel luglio ’71 La Pira – è necessario che io Vi veda […],a Castelgandolfo (come lo scorso anno) ci si può vedere: nessuno saprà di questa mia visita»). Ma, appunto, si trattava di visite da nascondere.  Solo alla fine della sua vita La Pira ricevette una lettera di Paolo VI che tornava a dargli del tu ricordandogli quel passato ricapitolato in un riferimento a monsignor Mariano Rampolla che nel 1922 li aveva fatti incontrare. Qualche giorno prima, ormai a fine corsa, La Pira confidava all’amico papa «non ci resta che riflettere sul nostro “fatto” e sul desiderio di andare incontro sino in fondo alla volontà del Signore. [...] davanti a noi c’è il corpo della Chiesa ogni giorno più crescente; che sarà?».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: