venerdì 31 luglio 2015
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Ricordando i settant’anni delle atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945 è fin troppo facile, se non banale, richiamare la storia dell’apprendista stregone. Del resto, quando il 16 luglio del 1945 fu fatta esplodere nel deserto del Nuovo Messico la prima atomica, Robert Oppenheimer, direttore del Progetto Manhattan che portò alla realizzazione della bomba, si sentì davvero nei panni di un apprendista stregone.Quel giorno, infatti, secondo Oppenheimer «il mondo non sarebbe più stato lo stesso» e – dopo aver pensato «ad Alfred Nobel e alla sua speranza, vana speranza, che la dinamite mettesse fine alla guerra» – pensò anche alla leggenda di Prometeo e a quel profondo senso di colpa dell’uomo per i suoi nuovi poteri. La bomba atomica, che la Casa Bianca definì in un suo comunicato «la più grande conquista della scienza organizzata in tutta la storia», fu salutata con grande soddisfazione dal generale Leslie R. Groves, responsabile militare del Progetto Manhattan, che dopo poco più di sei ore dallo sgancio della bomba chiamò Oppenheimer per dirgli: «Sono orgoglioso di lei e di tutti i suoi». E Oppenheimer gli rispose: «Qui siamo tutti ragionevolmente soddisfatti», anche se in seguito fu assalito da non pochi sensi colpa. Oppenheimer, infatti, si chiese se i morti di Hiroshima e di Nagasaki non fossero stati più fortunati dei sopravvissuti perché questi ultimi avrebbero patito per tutta la vita le terribili conseguenze dell’atomica. Altri accolsero la notizia del successo con entusiasmo. Otto Frish racconta che quando nel laboratorio si sparse la voce che Hiroshima era stata distrutta e che furono uccise circa centomila persone, molti prenotarono tavoli al ristorante per festeggiare l’avvenimento anche se «sembrava una cosa abbastanza diabolica festeggiare la morte di centomila persone, anche se erano dei nemici».Non mancarono, ovviamente, le voci del dissenso. Leo Szilard, che insieme ad Albert Einstein aveva firmato la famosa lettera al presidente Roosevelt dove si chiedeva di non usare l’ordigno, restò letteralmente sconvolto dalla tragedia di Hiroshima e in una lettera alla moglie Gertrud Weiss scrisse che l’utilizzo delle bombe atomiche contro il Giappone fu «una delle più grandi bestialità della storia» e tre giorni dopo, quando giunse la notizia della bomba su Nagasaki, chiese al cappellano dell’università di Chicago di inserire in tutte le funzioni religiose una preghiera speciale per le vittime e di proporre una colletta per i superstiti delle due città. Non ancora soddisfatto, scrisse di nuovo una petizione al presidente Roosevelt, che però non gli fu mai recapitata, affermando che quei bombardamenti erano «una flagrante violazione dei nostri stessi principi morali». Einstein, invece, dopo aver appreso dalla radio la tragedia di Hiroshima, esclamò «Oh, weh!» (“Ahimè!”) e si rifiutò di rilasciare dichiarazioni. Secondo Edward Teller, che più avanti avrebbe costruito la “bomba all’idrogeno”, la bomba atomica doveva essere assolutamente costruita ma doveva essere utilizzata in un altro modo. A suo parere doveva esplodere di notte sul cielo di Tokio a 6.500 metri di altezza e non a 650 come invece era stata fatta esplodere su Hiroshima. A quell’altezza le perdite sarebbero state minime. Il boato e la luce sprigionati dall’esplosione, a suo parere, sarebbero stati più che sufficienti per spaventare i giapponesi ai quali sarebbe stato recapitato questo messaggio: «Questa è una bomba atomica. Ne basterebbe una per distruggere una città. Scegliere tra la resa e l’annientamento». I giapponesi, di fronte a quella straordinaria esplosione, si sarebbero sicuramente arresi e sarebbe stata una vittoria morale oltre che militare ma soprattutto, conclude Teller, avremmo potuto dimostrare al mondo che la scienza poteva porre fine alla guerra senza spargere nemmeno una goccia di sangue. Della partita faceva parte anche l’italiano Emilio Segré, futuro premio Nobel per la fisica, secondo il quale la decisione di fare esplodere le atomiche sul Giappone fu l’unica possibile per il presidente degli Stati Uniti ma, commentò Segré, «sono lieto che non fossi io il presidente degli Stati Uniti».Sui pericoli della guerra atomica era intervenuto anche Pio XII che pochi mesi prima di quel fatidico agosto del 1945, in un discorso al Sacro Collegio disse che era giunto il momento di avvertire il mondo civile che stava camminando sul bordo di un «abisso di indicibili sciagure».Le atomiche vennero anche giustificate nel nome dell’adagio latino «Si vis pacem para bellum». Prima o poi, si diceva, anche la Russia avrebbe costruito la bomba atomica e ciò avrebbe segnato l’inizio di un nuovo equilibrio e di una pace duratura. Ma restava sempre la grave responsabilità di un gesto che aveva aperto la porta «a un’era di devastazioni su scala inimmaginabile» e aveva indotto inquietanti interrogativi. «Cosa penseranno di noi gli uomini del futuro?», si chiedeva retoricamente C.P. Snow. «Diranno che eravamo lupi con menti di uomini?Penseranno che avevamo abdicato alla nostra umanità? Ne avranno il diritto».
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