giovedì 5 marzo 2015
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Dopo i ritrovamenti degli ultimi tempi che già avevano rimesso in discussione le tesi di Francesco De Sanctis o questioni ritenute definitive circa le origini della lirica in volgare sul modello provenzale (si pensi alla canzone trascritta su una pergamena ravennate tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo Quando eu stava in le tu’ cathene, ma anche al frammento zurighese Resplendiente stella de albur di Giacomino Pugliese, o a quello piacentino Oi bella), la poesia italiana delle origini si arricchisce di una nuova testimonianza. La scoperta  si deve al filologo Nello Bertoletti, docente di linguistica all’Università di Trento, che ne rende conto nel primo volume dei Quaderni delle Chartae vulgares antiquiores (Edizioni di Storia e Letteratura), e, sin dal titolo, ci esplicita genere letterario e dipendenza di questo componimento custodito sul verso dell’ultima carta di un codice della Biblioteca Ambrosiana. Si tratta infatti di Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil, documento di una precoce ricezione della cosiddetta “alba provenzale”: uno dei generi più longevi e diffusi – teso a manifestare in versi l’amor sacro e l’amor profano – che trovò fra i maggiori interpreti il limosino Giraut de Borneil, lodato da Dante nel De vulgari eloquentia come «poeta della rettitudine» (giudizio però ridimensionato dallo stesso Alighieri nel Purgatorio). Un primo elemento di novità circa questa ignota traduzione dell’alba di Giraut sta nella sua datazione. La versione scoperta infatti è stata vergata su una carta dove appare la data 1239: che per Bertoletti è stata scritta in un momento successivo alla trascrizione dell’alba, precedendo così di parecchi decenni i più antichi manoscritti del testo provenzale (l’alba di Giraut, infatti, è stata sin qui trasmessa da sei canzonieri, nessuno dei quali anteriore al XIV secolo). Un secondo elemento si ritrova nell’area italiana di provenienza, localizzabile tra l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato, particolare che ne fa una documento autonomo rispetto anche alle testimonianze dei Siciliani e, per usare le parole di Bertoletti, «un notevole esperimento di trasposizione poetica dalla lingua d’oc in un volgare italoromanzo, compiuto in quell’area cisalpina occidentale, che ha conosciuto la prima e la più radicata acclimatazione della letteratura trobadorica».Ma, questioni specialistiche a parte, fermiamoci un momento sul contenuto di questi venti versi, articolati in cinque quartine. Nonostante l’incipit orante «Aiuta de’, vera lus et gartaç, / rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz, / ch’a mon conpago sê la fedel aiuta. / E’ nun lu vite, po’ la note fox veiota» (“Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte”), l’alba pare rappresentare un amore clandestino tra uomo e donna, fissando il momento in cui, prima del levare del sole, l’amante – avvertito da un “guardiano” al “cantare gli uccelli” e al primo “chiarore del cielo” – deve congedarsi dall’amata e fuggire. Non pare però infondato ipotizzare qui interpretazioni meno mondane, cogliendo metafore spirituali. Come ha fatto – proprio per il testo di Giraut – un grande esperto di filologia occitana come Costanzo Di Girolamo. Sino a indicare dietro l’amico guardiano  che si rivolge al «bè conpagnó» (il “caro compagno”), un angelo. Che reclama la leale compagnia («leà conpagia»), o meglio il ritorno della persona affidatagli. Che nella sua affermazione «ston en pagora nun l’om çiloso v’asaia» (cioè “ho paura che il marito geloso vi assalga”), in realtà si riferisce all’assalto del demonio. Insomma qualcosa che ricorda la relazione fra l’angelo e l’anima descritto da san Bernardo, l’abate di Chiaravalle contemporaneo di Giraut de Borneil. E qui basterà qui ricordare con Di Girolamo che, se è dopo il Mille che l’eros si afferma decisamente quale luogo di conoscenza, di riconoscimento di Sé e dell’Altro, è pure questo il periodo in cui fra i teologi l’attenzione dal Padre si sposta verso il Figlio, l’Incarnazione: ovvero, per così dire, anche all’essere dentro il corpo.

IL TESTOAiuta De’, vera lus et gartaç, rex glorïoso, segnior, set a vu’    platz, ch’a mon conpago sê la fedel    aiuta.E’ nun lu vite, po’ la note fox veiota.

[Bè] conpagnó, po’ me partì de vo’,e’ nun dormì, ma stete [e]n çenoiionet prega’ De’, lu fi’ santa Maria,che me rendese ma leà conpagia.
Bè conpagon, dormì-vox o veià?nun dormì tantu, ché lu çorno est    aproçato:in l’orïento la stela n’è parutachi adux lu çorno, ch’e’ l’a’ ben    cognovuta.
Bè conpagnó, in ça[n]tare vox apelo: sursé vos, ch’e’ òo canta[re] i oxelechi van criiando lo ço[r]no per la    boschaça;ston en pagora n[u]n l’om çiloso    v’asaia.
Bè conpagnó, fa’ vox a fenestrelaet rega[r]dé ver lo seren de celo:porì savere s’e’ sun fêle conpag[no];set sì nun fa’, vostre serà lo damaio.

LA TRADUZIONE
Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate (sii) il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte. Caro compagno, da quando mi sono separato da voi io non ho dormito, anzi sono rimasto sempre in ginocchio e ho pregato Dio, il figlio di Santa Maria, che mi restituisse la mia leale compagnia. Caro compagno, dormite o vegliate? Non dormite tanto a lungo, poiché il giorno si è fatto prossimo: in Oriente è apparsa la stella che reca il giorno, io l’ho ben riconosciuta. Caro compagno, cantando vi chiamo: ridestatevi, poiché io odo cantare gli uccelli che vanno cercando il giorno per la foresta; ho paura che il marito geloso vi assalga. Caro compagno, affacciatevi alla finestra e guardate verso il chiarore del cielo: potrete sapere se io sono compagno fedele; se così non fate, vostro sarà il danno. (traduzione di Nello Bertoletti)

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