martedì 17 giugno 2014
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​Non si capisce l’indole caratteristica del disegno eterno di Dio, se non si coglie la sua valenza redentiva: il progetto di Dio è un progetto di liberazione dell’uomo dal male; e dunque è un progetto che fa posto anche all’esistenza del male e la suppone. Il Signore Gesù, nel quale tutte le cose trovano il loro capo e la loro consistenza, è stato pensato e voluto come “redentore”. San Paolo sviluppa questo cenno dell’inno nei versetti del secondo capitolo che sono stati adesso letti. In essi noi troviamo una rassegna rapida ma completa di tutto ciò che entra a costituire il “regno del male”: i peccati personali (“paràptoma” e “amartìa”), «le voglie della carne» e i «desideri cattivi» (cioè le inclinazioni tipiche dell’uomo nella misura in cui non è rinnovato da Cristo), il peccato originale (“fysei”, “per natura figli d’ira”, cioè costituzionalmente e nativamente meritevoli di condanna), il “mondo” (anzi l’“eone di questo mondo”, come potenza malvagia personificata), il demonio (che qui è chiamato «principe delle potenze dell’aria»).
A questo quadro oscuro si contrappone l’iniziativa luminosa di Dio, per la quale si parla di: misericordia («ricco di misericordia»), di salvezza («siete stati salvati»), di risurrezione («ci ha anche risuscitati»), di glorificazione («ci ha fatti sedere nei cieli»), di grazia («la straordinaria ricchezza della sua grazia»), di bontà divina («la sua bontà verso di noi»), di amore («il grande amore con il quale egli ci ha amati»). E tutto questo naturalmente avviene «in Cristo Gesù».
 
Il regno delle tenebre e il regno della luce si richiamano e si intrecciano in questa presentazione: l’uno e l’altro si possono capire in modo adeguato solo se si considerano nella loro correlazione. Non si può avere un’adeguata intelligenza di Cristo (e quindi del disegno di Dio), se ci si dimentica del peccato, perché Gesù è intrinsecamente “redentore”, cioè riscattatore di una sconfitta dell’uomo, liberatore dall’aggressione del male, vincitore del nemico di Dio. Se non c’è colpa, diventa inutile una redenzione; e se è inutile la redenzione, Cristo diventa superfluo: un cristiano – e particolarmente un teologo – non dovrebbe mai sottovalutare la forza di questa concatenazione.
Non possiamo trascurare di renderci conto che il male esiste: esiste fuori di noi e dentro di noi. Il suo riconoscimento è necessario per arrivare alla piena comprensione del disegno di Dio, di Cristo, della concreta condizione dell’uomo. Il libro della Genesi, indagando con straordinaria profondità sull’origine dei nostri guai, fa risalire la prima origine della colpa degli uomini all’istigazione di un altro essere (il “serpente”). E il libro della Sapienza spiega: «La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24); dove si vuol intendere sia la morte spirituale sia la morte fisica, come ci insegna san Paolo.
 
In fondo possiamo dire che il peccato originale (o se si vuole, il peccato originalissimo) è stato compiuto in un mondo diverso dal nostro, e da quello si è riverberato nell’umanità; ed è per questo che il peccato originale rimane per noi così misterioso: perché ha la sua radice in un ambito invisibile e sovrumano. Il male ha un’origine angelica; perciò la mente umana fa così fatica a inquadrarlo. Oggi non si prende molto sul serio il demonio (salvo poi farne oggetto di attenzione aberrante e perfino di culto): la cultura dominante, che si immagina di essere razionale, lo annovera tra le fiabe. Ma senza di lui diventa più arduo afferrare nella sua piena verità la nostra condizione e la nostra storia. A me pare più sensato affidarsi al parere di Gesù, che certamente ha le idee più chiare delle nostre sulle “cose come stanno”. E Gesù non scherza affatto su questo argomento. Per lui il demonio “è menzognero” e “padre della menzogna”; “non ha perseverato nella verità”, sicché “non vi è verità in lui”; ed “è stato omicida fin dall’inizio” (cfr. Gv 8,44). La lotta e la vittoria di Cristo sono contro il «principe di questo mondo» (Gv 12,31); e, ancora prima del trionfo pasquale, la sperimentale missione apostolica segna l’inizio della sua sconfitta: «Io vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).
 
San Paolo, in disaccordo coi moderni scolorimenti, ci avverte che il nostro vero combattimento non è “contro la carne e il sangue” (cioè non si riduce a superare gli squilibri somatici, psichici, sociali, culturali), ma “contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male” (cfr. Ef 6,12). Prendere sul serio il demonio è premessa indispensabile per prendere sul serio il male del mondo, e per non ritenere che l’uomo possa eliminare da solo i suoi guai e autoredimersi, che sarebbe la più tragica delle illusioni. Il demonio è al lavoro fin dal principio della nostra storia: è un essere oscuro e attivissimo.
 
Nelle “Avventure di Pinocchio” c’è la sua più adeguata raffigurazione nell’Omino roseo e mellifluo che, portando sul carro i ragazzi alla perdizione, canticchia: “Tutti la notte dormono e io non dormo mai”. Sotto il suo influsso, la trasgressione è entrata nell’umanità e ha deteriorato la nostra stirpe: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte» (Rm 5,12); «per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5,19). Noi viviamo dunque in una terra contaminata, e ogni uomo – che resta nel profondo del suo essere immagine di Cristo – nasce con una dissomiglianza da lui, e quindi in discordia con la sua natura “teologica”: ogni uomo che nasce è un’immagine deteriorata di Cristo, che con tutto il suo essere anela, anche se inconsciamente, a un provvidenziale lavoro di restauro.
 
Queste stigmate di morte restano in ogni singolo uomo che non fa del rinnovamento portatoci dal Signore il principio totale dei suoi sentimenti interiori, della sua mentalità, della sua condotta. E siccome nessuno di noi può dire che tutto il suo essere interiore sia stato effettivamente rinnovato dalla salvezza di Cristo e che non ci sia più in lui nessun residuo dell’uomo vecchio, ciascuno di noi può riconoscere come sua, per qualche aspetto e per qualche momento, la triste constatazione di Paolo: «C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,18.19).
*Arcivescono emerito di Bologna
 
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