lunedì 6 luglio 2015
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I rifugi alpini arrivano a metà Ottocento. Voce saggia e amica del gestore, fuoco acceso e polenta fumante, se necessario giaciglio per la notte e latte caldo alle prime luci dell’alba: una certezza per l’escursionista d’alta quota. Ma se l’alpinista arriva a tutti i rifugi, non tutti i rifugi possono esser costruiti là dove arriva l’alpinista. Proviamo a immaginare una situazione particolare, che poi tanto immaginaria non è: canalone ghiacciato in ripida pendenza, parete verticale, spiazzo roccioso di tre metri quadri. Sopra gli occhi, una cima che canta l’immensità del creato. Tutto intorno il nulla. Il primo punto d’appoggio, 5 ore più sotto. Di erigere una casetta custodita, in quei tre metri per tre, neanche a parlarne: troppo limitato lo spazio, troppo basso il numero dei suoi fruitori. Insomma: operazione tecnicamente impossibile, economicamente insostenibile. Che fare? Rischiare la morte, ma provare comunque a salire? Oppure rinunciarvi? Sono più o meno queste le domande che crucciano nel 1923 i dirigenti del Club alpino accademico italiano di Torino (Caai), una sezione del Cai Club alpino italiano). Pensano per 24 mesi, poi passano all’azione. Ed esattamente 90 anni fa inventano il primo bivacco alpino. Lo issano al Col d’Estellette, sul Monte Bianco, a quota 2950: è l’estate del 1925. «Quello che oggi chiameremmo un prefabbricato – ricorda Corradino Rabbi nell’annuario 2004 del Caai – era composto da una base formata da due solide intelaiature in legno, unite poi sul posto sull’asse centrale da bulloni passanti, foggiate a portantina, rigide sì da poter sostenere il peso di tutta la costruzione sui soli quattro canti e da poter venire ancorata solidamente al terreno stesso. La copertura è fatta con lamiera di ferro zincato… e rinforzata con perline di legno… Il pavimento è pure di legno, nel frontale anteriore è applicata la portina a cerniera… La larghezza del bivacco è di 2,25 metri per 2 metri di profondità e 1,25 metri di altezza al colmo, e vi possono dormire 5 persone». Ecco l’opera dei fratelli Ravelli, alpinisti, nella Torino degli anni Venti esperti tornitori di metalli: un mini-ricovero a mezza botte, facile da trasportare in loco, pensato per resistere agli agenti atmosferici. Incustodito, e per questo necessariamente in grado di bastare a se stesso. Sempre aperto, affidato alla responsabilità solidale dei fruitori. Un’idea vincente: quella pionieristica costruzione viene «clonata» più e più volte, mentre nell’arco alpino s’inizia a parlare di bivacco «modello Ravelli». Ma si sa: tutto è soggetto a perfezionamento. Così, nell’immediato dopoguerra, a metter la testa in quei romiti cubicoli arriva Giulio Apollonio. L’ingegnere – che tra il 1942 e il 1950 presiedette due volte la Sat (Società degli alpinisti tridentini) – studia un nuovo design: non più a semibotte, ma a parallelepipedo con tetto arcuato. I posti letto salgono a 8/9 e di giorno, ribaltati, fanno spazio a piccoli tavoli. Compare un rudimentale sistema di ventilazione, con presa d’aria sulla porta e sfiatatoio sul tetto. Per capirci: ai canoni del «modello Apollonio» risponde il bivacco che sfida il rigore del Crozzon di Brenta, nel cuore delle Dolomiti trentine. E oggi? «Dalla fine degli anni Sessanta e soprattutto in Svizzera – spiega l’architetto Luca Gibello, presidente dell’associazione culturale "Cantieri d’alta quota", sulla rivista Cai Montagne360 – i bivacchi paiono la più diretta materializzazione di concetti, tecnologie e immaginari legati al mondo dell’aerospazio. Diventa cioè quasi automatico il parallelismo che s’istituisce tra i bivacchi (unità minime di sopravvivenza in ambienti estremi) e i moduli che vorrebbero colonizzare i territori "alieni", caratteristici della coeva corsa alla conquista del cosmo». Così queste sentinelle a guardia del cielo vincono per Gibello «la sfida modernista e razionalista dell’Existenzminimum, ovvero la definizione di uno standard spaziale minimo per l’abitare». E, come fu alle origini, l’Italia scende in pista con la maglia iridata. I «Cantieri d’alta quota» studiano le antiche realizzazioni, supportano le nuove, diventano centro nevralgico per gli addetti ai lavori. Ed ecco per esempio la Capanna Gervasutti ai 2835 metri delle Grandes Jorasses: lì, dal 2011, un connubio di tecnologie nautiche, aerospaziali e automobilistiche assicura autonomia energetica. Così, quando entri, accendi la luce e carichi il cellulare: inaudito, fino a quel momento. E la sfida continua. Per firmare il ricovero «Città di Cantù» al Giogo alto dell’Ortles Cevedale, Maximiliano Galli ha dovuto vincere un concorso bandito dal Cai della cittadina brianzola con l’Ordine degli ingegneri. Sarà posizionato in loco quest’estate, quando verrà innalzato pure l’«Arrigo Giannantonj» al Passo Salarno in alta Valsaviore: lo ha voluto il Distretto culturale di Val Camonica, che si è preso la briga di bandire un concorso internazionale. L’anno prossimo, invece, verso la Forcella Marmarole nelle Dolomiti bellunesi salirà il «Fratelli Fanton», scaturito da una competizione europea bandita dal Cai di Auronzo. Lascito delle strutture che sostituiranno sarà l’essenzialità. Ma il nostro tempo, proteso verso il futuro, li consegnerà ai prossimi decenni con ipertecnologici sistemi di comfort ed efficienza. La mente corre allora a Primo Levi, e a quel disincantato reportage che colorò La chiave a stella: «Adesso – scrive il sopravvissuto di Auschwitz nel romanzo dedicato all’ingegno italico – mi hanno detto che li mettono giù con gli elicotteri, ma a quel tempo questi bivacchi fissi non erano un gran che, e la più parte delle persone, anche quelli che dormono nella biglietteria di Porta Nuova (stazione ferroviaria di Torino, ndr), se li obbligassero a dormire lì dentro farebbero reclamo. Erano come delle mezze botti di lamiera, con una portina per entrare come quella dei gatti, e dentro soltanto un materasso di crine, qualche coperta, una stufetta grossa come una scatola di scarpe, e se andava bene un po’ di pane secco lasciato lì da quelli che ci erano passati prima». Correva l’anno 1947. Dove si trovasse, Levi non lo ricorda. Solo una certezza: quello fu l’albergo del suo viaggio di nozze. Così aveva deciso la moglie.
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