giovedì 9 febbraio 2012
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​Il 23 gennaio scorso con una cerimonia al Musée du quai Branly, il museo delle culture "altre" nato pochi anni fa, il cui motto è «Là dove dialogano le culture», venti teste di Maori sono state restituite a Te Papa, il museo nazionale neozelandese di Wellington. Il rituale ha sigillato i portoni del Museo su una mostra che dall’ottobre scorso aveva esposto una ricca selezione di materiali maori scelti da studiosi neozelandesi e provenienti da vari musei. Il titolo era più che sibillino: Maori. I loro tesori hanno un’anima. Non stiamo parlando di sculture, ma di teste umane con la pelle tatuata alla maniera maori, mummificate e finite nei musei d’antropologia del mondo, parecchie anche al Musée de l’Homme di Parigi. Il popolo maori sta conducendo da alcuni anni la sua battaglia legale e diplomatica per la restituzione ai propri clan di questi «resti umani» e finora ha ottenuto da quattordici musei del mondo le teste e le parti di corpi mummificati appartenuti a 190 individui di cui si è raggiunta l’identificazione. Questi resti sono quindi stati inumati in luoghi funerari, «luoghi taboo», dove potranno finalmente riposare senza essere oggetto di curiosità per turisti o di contesa fra chi rivendica il diritto di studiare questi «materiali» e la comunità che ne pretende la restituzione. Da Parigi gli antropologi replicano, con la perfidia e l’arroganza di chi vuol far sapere che ha comunque avuto ciò che voleva, che quelle teste sono state rese ai legittimi proprietari solo dopo averle studiate a sufficienza. La faccenda continua a fare scalpore, perché i conservatori dei musei francesi paventano il rischio che prima o poi debbano restituire parti importanti delle loro collezioni di antropologia ai popoli di provenienza. I Maori sono un popolo segnato dal colonialismo occidentale, che da mezzo secolo lotta per riavere ciò che era suo: cultura, lingua, terre, autonomia e resti umani che furono oggetto di orrendi commerci. La disputa sulla restituzione delle teste diventa così un passo emblematico nella strategia postcoloniale che accomuna i Maori ad altri popoli che sono stati sotto il giogo delle nazioni occidentali fino a pochi decenni fa. Una situazione, quella maori, che aveva trovato un punto di equilibrio nel 1840 col trattato di Waitangi, dove, nella sostanza, l’autorità britannica lasciava ai neozelandesi il controllo delle foreste, dell’acqua e delle risorse naturali. Ma durò poco. La sanguinosa guerra con gli inglesi che ebbe inizio nel 1863 e proseguì per un decennio, fino al 1872, sembrò porre fine alle speranze maori. In realtà, verso la fine del secolo il parlamento neozelandese varò leggi all’avanguardia, che riconoscevano il diritto di voto alle donne e istituivano le pensioni di vecchiaia. Nel 1947 venne l’indipendenza dall’autorità inglese e oggi la maggioranza degli abitanti della Nuova Zelanda, che in tutto conta circa quattro milioni di persone, è Pakeha, i neozelandesi di ceppo occidentale. La questione sollevata meno di un mese fa dalla restituzione di quelle venti teste, però, va ben al di là delle rivendicazioni maori. Dopo il Clash of civilization, slogan che ha tenuto banco per un decennio dopo l’attentato di New York, oggi si sta imponendo uno choc des cultures. Tutto è iniziato dagli Stati Uniti e dall’approvazione recentemente di una legge che sembra poter costringere i musei a restituire ben 160mila individui alle tribù dei nativi. In Francia questo vento crea un certo nervosismo fra i funzionari dei musei, se è vero che alcuni replicano, a chi dice che sarebbe giusto procedere a quelle restituzioni in blocco, che pur comprendendo la collera dei popoli che protestano il loro diritto «non possiamo certo abbandonare gli studi sull’umanità già intrapresi, per compiacere queste rivendicazioni identitarie». Si può capire la loro irritazione, che oppone toni sprezzanti a legittime richieste, quando si pensa che il solo Musée de l’Homme possiede diciottomila crani e fra questi vi sono quelli di rivoltosi algerini uccisi durante la guerra per l’indipendenza o di eschimesi morti di vaiolo oppure di re africani, come quello della Casamance, la regione nel sud del Senegal. Il responsabile scientifico delle collezioni antropologiche del Musée de l’Homme, Alain Froment, contesta, per esempio, il principio di fondo di queste rivendicazioni. Va bene, dice, se si identificano gli individui cui appartengono i resti, ma la realtà è che la maggior parte di questi materiali umani sono di individui che rimarranno per sempre anonimi. «Dono il mio corpo alla scienza», aveva lasciato detto Lombroso, ma, appunto, aveva deciso lui il destino del proprio cadavere, mentre molti resti nei musei d’antropologia europei sono entrati nelle loro stanze per vie surrettizie. Se si accetta che la restituzione avvenga indiscriminatamente, si crea un precedente pericoloso: «Tutto ciò che viene detto sacro potrebbe essere reclamato», ha dichiarato Froment. L’antropologo francese non lo dice esplicitamente, ma paventa un rischio ben più grave: e se il Louvre dovesse, prima o poi, essere costretto a restituire le mummie dei faraoni all’Egitto? Insomma, i Maori potrebbero costituire il cavallo di Troia per una «espropriazione» forzata di materiali che, peraltro, sono arrivati da commerci spesso ignobili sulle popolazioni colonizzate o, come nel caso della spedizione napoleonica al Cairo, sono frutto dell’opera di spogliazione delle ricchezze artistiche, storiche e antropologiche dei popoli soggetti alla dura lex coloniale (del resto, anche noi italiani abbiamo sperimentato l’avidità napoleonica che ha espropriato di tanti tesori i musei e le chiese del Belpaese: sarebbe solo l’ennesima riprova che musei come il Louvre sono diventati quello che sono grazie allo ius coloniale). I filosofi illuministi definirono i Maori «nobili selvaggi» per il loro portamento e per l’eleganza e la ricchezza dei loro rituali. La colonizzazione li portò, anche contro la loro volontà talvolta, a rispondere con la violenza agli atti di forza dei colonizzatori. Il commercio sulle teste umane fu certamente riprovevole, ma fa ancor più ribrezzo pensare che qualcuno le comprasse per esporle in un museo o in un luogo privato da contemplare per la bellezza dei tatuaggi arabescati sulla pelle di individui morti spesso di cause violente. Trofei, insomma, come quelli della caccia grossa durante un Safari. Nel 1831 un commerciante inglese, Joe Rowe, espose nella vetrina della sua bottega a Kapiti, in Nuova Zelanda, due teste mummificate. Passarono lì davanti i membri della stessa tribù maori e pretesero che venissero loro restituite in quanto appartenenti a due uomini della loro comunità. Il commerciante li mandò bruscamente a quel paese. Nella notte la tribù gli tese un’imboscata, e dopo averlo ucciso, divorarono parti del suo cadavere e ne imbalsamarono la testa facendole assumere l’aspetto tipico dei "Toi Moko", cioè quello che avevano le teste mummificate degli antenati maori.L’Occidente, e le sue istituzioni culturali, dovrebbero riflettere su queste rivendicazioni dei popoli che furono oggetto della colonizzazione, perché le ragioni di queste richieste vanno ben al di là del mero risarcimento materiale. Invocano una pratica della riconciliazione (culturale e politica) che non può essere fondata soltanto su un generico colpo di spugna sul passato, perché quel che è stato sarà ancora se non si concederà a questi popoli un risarcimento che passa anche dalla loro memoria e dalle testimonianze culturali che la tenevano in vita (che furono rubate o razziate con la stessa logica del bottino di guerra). Il premio Nobel africano Wole Soyinka ha scritto nel 1999 un breve saggio in merito, Il peso della memoria, dove spiega perché la Commissione per la riconciliazione in Sudafrica non ha sciolto il nodo della questione, preoccupandosi anzitutto di realizzare una transizione incruenta dal potere bianco alla nuova democrazia. Ha fallito la vera riconciliazione perché non ha chiesto ai colpevoli di farsi carico delle loro responsabilità del passato, di un’epoca dove furono attori di angherie, torture e assassini a danno della popolazione indigena. E soprattutto non ha chiesto ai responsabili di risarcire il popolo sudafricano di quella memoria e di quella cultura che hanno depredato e talvolta cancellato per sempre privando quei popoli della loro storia.
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