martedì 7 aprile 2015
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Si potrà mai costruire un robot che racconti barzellette e rida alle nostre? Secondo Aristotele nulla esiste di più umano del riso e se qualcosa riesce a ridere, si tratta di un uomo. Il riso, insomma, sarebbe condizione necessaria e sufficiente per l’umanità, e se si vuol comprendere l’uomo bisogna riflettere sul riso. Nel Dizionario filosofico Voltaire sostiene che «l’uomo è il solo animale che piange e che ride». E Kant, della cui serietà non possiamo certo dubitare, sosteneva che il riso ha funzione terapeutica, e «si origina dalla scoperta di un’incongruità, da una realtà che ci appare affatto diversa dalla nostra aspettativa».  Il riso ha spesso un effetto liberatorio: si pensi al motto di spirito, alla battuta, al cosiddetto Witz, di cui si occupò Freud nella sua ricerca epocale del 1905 su Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio: l’uomo ridendo si libera, anche se solo per breve tempo, da inibizioni e rimozioni, si dischiude in modo giocoso a nuove fonti di piacere e mette temporaneamente a tacere l’istanza della censura presente nel suo intimo. Il variegato e complesso fenomeno del riso è stato oggetto di studi e ricerche: l’umorismo, la comicità, il sarcasmo, l’ironia, il dileggio, la canzonatura hanno sempre attratto la volontà esplicativa dei sapienti, ma sono stati esercitati con beata spontaneità dagli umani di ogni epoca storica, tranne che dagli indisponenti seriosi privi del senso dell’umorismo. Non c’è dunque da stupirsi se i costruttori di robot stiano cercando di iniettare nelle loro macchine l’ironia e il sarcasmo: in tante cose i robot ci imitano o addirittura ci superano, per tanti aspetti costituiscono uno specchio dilatante, e inquietante, dei nostri attributi che la tentazione di fabbricare una macchina ridens è irresistibile. Ma, come ha illustrato Kevin Zawacki su Atlantic qualche settimana fa, l’impresa si presenta assai ardua: si ha l’impressione che le macchine 'intelligenti' siano piuttosto ottuse e impermeabili all’ironia e, soprattutto, non ne sappiano fare (se non involontariamente!); come quegli individui che non capiscono le battute e che, quando tentano di farne, risultano grevi e uggiosi. Gregory Bateson racconta di un giovane schizofrenico che arrossiva imbarazzatissimo quando l’avvenente commessa gli chiedeva cortesemente «Che cosa posso fare per te?»: chi prende tutto alla lettera vive in un mondo privo di sfumature, dominato dalla logica binaria del vero e falso. E non ride mai. Ma c’è qualche speranza di poter costruire un giorno macchine capaci di ironia, come l’entità virtuale Samantha nel film Lei di Spike Jonze, che si dimostra più impertinente e spiritosa del suo compagno umano? Il problema coinvolge nella sua globalità il fenomeno della comunicazione umana, che consiste non solo in parole, ma anche in toni di voce, sguardi, posture, silenzi e ammiccamenti, e, per limitarci al solo aspetto linguistico, presenta una complicata stratificazione di livelli tra i quali i parlanti esperti si destreggiano come acrobati. Tanto che, secondo alcuni, la conoscenza di una lingua (madre o straniera) si può misurare in base alla capacità di fare e capire battute in quella lingua. Ma insomma, questa competenza potrà essere raggiunta da un robot? Secondo Noah Goodman, della Stanford University (California), che si occupa di psicologia, informatica e linguistica, sarà necessario che prima gli umani riescano a capire a fondo l’ironia e il sarcasmo, che sembra abbiano a che fare con un abile rimescolamento dei diversi aspetti della comunicazione: rimescolamento che quasi tutti riusciamo a eseguire come un gioco di destrezza, ma di cui ci risulta difficile esplicitare le regole (ammesso che ve ne siano). Insomma prima di costruire un programma che esprima qualcosa di umoristico, dobbiamo capire che cosa significhi umoristico. Anche Elisabeth Camp, della Rutgers University (New Jersey), esperta di filosofia del linguaggio e della mente, considera il comico e il sarcastico estremamente complessi e, riprendendo Aristotele, li ritiene squisitamente umani.  E non bisogna dimenticare il contesto, l’esperienza e l’abitudine: la comunicazione è un fenomeno sociale, nel quale siamo immersi fin dalla nascita e che, per chi non è proprio refrattario, si sviluppa e si raffina con l’interazione. È sbagliato pensare che la comunicazione umana serva solo (o soprattutto) per fornire informazioni: nella comunicazione passano emozioni, si collaudano relazioni, si rinsaldano, si modificano o si distruggono rapporti.  Per esempio nella scuola il passaggio di contenuti dal docente ai discenti non avviene se prima (o contestualmente) non si stabilisce un canale empatico, di simpatia umana. Ma le macchine non possiedono questa profonda struttura di esperienze e di emozioni e fornirgliela «richiede ben più che qualche riga di codice», dice Goodman. Ecco perché è difficile incontrare robot galanti o capaci di capire un’iperbole. Secondo Missy Cummings del Mit, esperta d’interazione uomo-macchina, la tecnologia attuale non consente la costruzione di robot dotati del senso dell’umorismo: i robot «hanno ancora difficoltà nel capire comandi chiari e distinti, figurarsi le sfumature che caratterizzano il sarcasmo, il quale spesso non sta nelle parole, ma nel tono o nell’espressione del viso». E forse, aggiunge (sarcasticamente), gli ingegneri non sono i più adatti a riconoscere l’umorismo e a tradurlo in software... Chissà, forse i comici se la caverebbero meglio. Ma secondo il comico Keith Powell, le intelligenze artificiali hanno già quasi conquistato il mondo: intorno a noi tutti guardano dentro lo schermo del loro cellulare quindi, afferma Powell, «i robot non avranno bisogno di afferrare il sarcasmo nelle nostre conversazioni, perché non ci saranno più conversazioni».
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