venerdì 10 giugno 2016
ntimisti, morbosi, mistici, sentimentali. Tornano i diari dello scrittore francese NOBEL André Gide (1869-1951) insignito del premio per la Letteratura nel 1947.ntimisti, morbosi, mistici, sentimentali. Tornano i diari dello scrittore francese NOBEL André Gide (1869-1951) insignito del premio per la Letteratura nel 1947.
Spudorato, candido Gide
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Tra Otto e Novecento nella letteratura francese i diari abbondano e i quaderni non mancano. Gli elegantissimi fratelli Goncourt, il geometrico Paul Valéry, l’introspettivo Julien Green: ciascuno di loro, in un modo o nell’altro, annuncia o continua, conferma o contesta il modello del journal per eccellenza, redatto da André Gide per quasi settant’anni, dal 1887 al 1950. Dagli esordi adolescenziali (lo scrittore era nato nel 1869) alla piena consacrazione (morì nel 1951, nel 1947 gli era stato conferito il premio Nobel). C’è tutto Gide nel Diario. O, meglio, c’è tutto quello che Gide ha voluto rivelare di sé. Parliamo, com’è noto, di un autore niente affatto schivo e a lungo ritenuto scandaloso per la franchezza con cui aveva dichiarato la propria omosessualità, ma anche per le sue convinzioni religiose e politiche. Lettore appassionato del Vangelo di Giovanni, tentato alla conversione al cattolicesimo in un momento cruciale della sua vita – tra il 1916 e il 1917, esattamente un secolo fa –, Gide rese pubblici i primi frammenti dei propri appunti privati nel 1897, attraverso una serie di osservazioni che ora figurano con il titolo di Letteratura e moralee Morale cristiana nel primo volume (1887-1925) della nuova, imponente edizione italiana del Diario curata da Piero Gelli per i “Classici della letteratura” Bompiani. Analogamente, dal secondo volume (1926-1950) affiorano le tracce del carnet tenuto da Gide durante il viaggio del 1936 in Unione Sovietica, che l’anno succes- sivo divenne oggetto del controverso Ritorno dall’Urss. Tradotto da Sergio Arecco, il Diario ritrovato si basa sul testo stabilito negli anni Novanta da Eric Marty e Martine Sagaert per la “Pléiade” attraverso un minuzioso lavoro di restauro filologico che ha permesso di recuperare ampie porzioni della prosa di Gide precedentemente escluse dalla pubblicazione. L’immagine complessiva non cambia, ma si precisa nella direzione di un’opera che, nella sua indecifrabilità e mescolanza di generi e toni, ci appare oggi tanto più vitale e interessante di romanzi pur memorabili come I falsari (1925) o di ricognizioni autobiografiche più compiute come quella consegnata a Se il grano non muore (1924). Non è questione di spontaneità vera o presunta, se non altro perché lo stesso Gide ammette che ad appannare lo specchio del journal è lo stato d’animo solitamente ombroso da cui è spinto a redigere queste pagine. In ogni caso, se c’è una ragione per cui, nonostante il passare del tempo, Gide può ancora essere considerato nostro «contemporaneo capitale» (secondo la celebre definizione sulla quale giustamente insiste Gelli nel suo ricco saggio introduttivo), questa va ricercata proprio nella mescolanza tra spudoratezza e candore, tra abbandono sentimentale e rivalsa quasi pettegola. Amici e nemici andavano a cercare quel che Gide scriveva di loro, non appena arrivava in libreria un nuovo volume, e non sempre la sorpresa che ne conseguiva poteva essere considerata gradevole. Un po’ come accade oggi nel marasma dei social network, verrebbe da aggiungere, nei quali la nobile arte del racconto di sé si è democratizzata e insieme, fatalmente, involgarita. Gide avrebbe scritto il suo Diario, se avesse avuto a disposizione un profilo Facebook? La domanda è tanto suggestiva quanto fuorviante, dato che il fascino di un’impresa come questa deriva non dall’immediatezza della notazione, ma dal suo sedimentarsi in letteratura. E dal costituirsi della voce in monologo (a volte aspro, a volte autoindulgente), non dal suo rendersi disponibile a un dialogo che viene anzi sostanzialmente escluso dall’inabissarsi dell’autore in se stesso, nei propri slanci e nelle proprie contraddizioni, nelle non infrequenti morbosità e nelle altrettanto abbacinanti – e polemiche – intuizioni mistiche: «Molte strade portano a Roma. Una sola porta a Cristo». 

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