venerdì 29 luglio 2016
​Per la prima volta il "Mercante di Venezia" viene rappresentato nel luogo simbolo della persecuzione ebraica. Occasione due importanti anniversari. Quattrocento anni dalla morte del drammaturgo inglese e cinquecento anni dalla fondazione del quartiere ebreo.
Con Shakespeare nel ghetto di Venezia
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Shylock non ha mai abitato da queste parti. E sì che la cronologia glielo avrebbe permesso. La prima rappresentazione del Mercante di Venezia è del 1605, l’istituzione del Ghetto risale al 1516: il Senato della Repubblica Serenissima prende la decisione in data 27 marzo, quattro mesi tardi – il 29 luglio, esattamente come oggi – il trasferimento degli ebrei veneziani nel «recinto» a loro riservato è ormai un fatto compiuto. William Shakespeare però non se ne cura. Fedele come al solito alle sue fonti novellistiche (in questo caso il trecentesco Pecorone di ser Giovanni Fiorentino), concentra l’azione del dramma attorno al Ponte di Rialto, dove effettivamente avevano sede i banchi di prestito prima che gli ebrei fossero tenuti a prendere casa nella gran piazza di Cannaregio. Più tardi venne l’espansione verso il cosiddetto Ghetto Vecchio e verso il Ghetto Nuovissimo. 

 

In cinque secoli le trasformazioni non sono mancate, ma i pozzi attorno ai quali si muovono gli attori della Compagnia de’ Colombari portano ancora lo stemma della famiglia De Brolo, prima proprietaria dell’area. Shylock non ha abitato qui, d’accordo, eppure in Ghetto Nuovo si trova a suo agio, tanto da rendere di per sé memorabile questo The Merchant in Venice (“Il Mercante a Venezia”, repliche fino al 1° agosto, per informazioni www.themerchantinvenice.org). Inserito nelle celebrazioni per il quinto centenario del Ghetto veneziano, lo spettacolo costituisce un ponte ideale con un altro anniversario eccellente, quello della morte di Shakespeare, avvenuta il 3 maggio del 1616. A fare da tramite è ancora lui, Shylock, il personaggio sul quale il dramma fa perno, nonostante l’onore del titolo vada ad Antonio, il «mercante regale» la cui figura affascinava il teologo Romano Guardini. Mai, prima d’ora, l’opera era stata rappresentata nello scenario naturale del Ghetto Nuovo , all’ombra delle «scuole» (è la trascrizione di shul, “sinagoga” in yiddish) e sotto lo sguardo attento dei passanti in kippah. I Colombari sono un ensemble cosmopolita, recitano in inglese, in italiano e anche in pavano, il dialetto portato a dignità letteraria dal Ruzante. È in questa lingua che si esprime di preferenza il Lancillotto interpretato da Francesca Sarah Toich, un irriverente Zanni (l’antenato di Arlecchino) che prende il posto del già beffardo giullare tratteggiato da Shakespeare. 

 

Si tratta di una delle invenzioni più riuscite nella regia della statunitense Karin Coonrod, che per il resto si sofferma sulla tragica complessità di Shylock. Gli attori chiamati a interpretare l’ebreo sono cinque, dal giovanile Sorab Wadia (spetta a lui stabilire, con forza sorprendente, i termini del contratto di sangue) fino a Ned Eisenberg, che finisce sconfitto, in ginocchio, con le mani intrecciate dietro la nuca nella posizione di tutte le vittime, di tutti i perseguitati. Adriano Iurissevich e Andrea Brugnera accompagnano il personaggio negli andirivieni della trama, ma quando si tratta di pronunciare il celebre monologo sugli ebrei che come tutti hanno occhi, e come tutti sanguinano se feriti, e ridono se solleticati, ecco arrivare Jenni Lea-Jones, Shylock con volto e voce di donna. Femminile e materna è infatti la virtù della misericordia, la parola che viene proiettata in diverse lingue – italiano, inglese, ebraico – sulle case di Ghetto Nuovo quando la rappresentazione è finita, l’usuraio è stato abbandonato al suo destino e gli altri personaggi possono consolarsi nelle loro schermaglie d’amore. 

 

Per conquistare la bella Porzia (Linda Powell) l’intraprendente Bassanio (Michele Athos Guidi) si è fatto prestare da Shylock i tremila scudi a garanzia dei quali il mercante Antonio (Stefano Scherini) ha accettato di promettere una libbra della propria carne. Un accordo che ha l’iniziale apparenza di un gioco o comunque di un’esagerazione, ma che Shylock pretenderà che sia rispettato alla lettera do- po che la fuga della figlia Jessica con il seduttore Lorenzo (rispettivamente Michelle  Uranowitz e Paul Spera) lo ha umiliato e straziato. Pretende giustizia davanti al doge, ma il verdetto gli si rovescia contro, i suoi averi vengono confiscati, la conversione al cristianesimo imposta come fosse una condanna.

 

Il preteso antisemitismo del Mercante di Venezia è un tema ricorrente della critica shakesperiana. Che del dramma sia stato fatto uso in senso razzista è fuori discussione, ma la sapienza poetica di Shakespeare è troppo sottile per prestarsi a opportunismi di sorta. Anche quando l’allestimento non parteggia apertamente per Shylock come in questo caso, il pubblico si ritrova a fraternizzare con il personaggio. Per rendersene conto basta visitare l’importante mostra su Venezia, gli ebrei e l’Europa aperta fino al 13 novembre a Palazzo Ducale (catalogo Marsilio), dove una delle molte e sempre appropriate installazioni multimediali è dedicata appunto alle metamorfosi del più conosciuto – per quanto immaginario – tra gli ebrei veneziani. Lo si può ridurre a macchietta finché si vuole, come faceva il mattatore Ermete Novelli in un film muto del lontano 1910, ma Shylock è sempre capace di annunciare la sua umanità con una dolorosa prepotenza. La sua irragionevolezza, perfino la sua ferocia è quella della vittima che già sente di essere in trappola. Non potrà mai vincere, per questo appartiene alla storia di ogni tempo. 

 

L’ambiguità di Shylock è, in un certo senso, la stessa del Ghetto, luogo di segregazione e insieme di cosmopolitismo e di paradossale integrazione, come ricorda una delle responsabili della mostra di Palazzo Ducale, la storica Donatella Calabi, nell’utilissimo Venezia e il suo Ghetto (Bollati Boringhieri, pagine 190, euro 15,00). Gli ebrei, del resto, non era l’unica minoranza tenuta a occupare una zona precisa, secondo la logica dei «fondachi» (dei turchi, dei tedeschi eccetera) di cui ancora conserva memoria la toponomastica cittadina. E se Shylock non può mai essere dimenticato, allo stesso modo il Ghetto è qualcosa di più e di diverso rispetto a un vago reperto del passato. Lo ribadisce il sociologo Mitchell Duneier in un saggio da poco uscito negli Stati Uniti, Ghetto: The Invention of a Place, the History of an Idea (“Ghetto: l’invenzione di un luogo, la storia di un’idea”, Farrar, Straus and Giroux). Scorrendo queste pagine molti lettori d’oltreoceano hanno appreso, non senza sorpresa, che “ghetto” non è un termine gergale afroamericano e che, anche questa volta, occorre tornare indietro, alla vecchia Europa, a Venezia e ai suoi canali. È lì che, cronologia o non cronologia, Shylock continua ad aggirarsi.

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