martedì 9 febbraio 2016
Il tribunale rosso che ha nascosto l'oro di DONGO
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A Como, nei mesi successivi ai fatti di Dongo, operò un vero e proprio «tribunale della morte» clandestino, che deliberò sentenze letali contro i partigiani dissenzienti. Un organo di «giustizia rivoluzionaria», costituito e formato dai massimi dirigenti locali del Partito comunista in spregio alla legge, mentre in parallelo funzionava la Corte d’assise straordinaria che infliggeva condanne alla pena capitale e altre sanzioni severissime ai responsabili delle angherie fasciste avvenute durante il periodo cruento della Repubblica sociale italiana. È quanto emerge dalle rivelazioni di un partigiano comasco che, a 93 anni, ha deciso di pareggiare i conti con la verità storica, dopo oltre un settantennio di omertà e di silenzi. Mario Tonghini, nome di battaglia «Stefano», è un autorevole esponente della Resistenza, presidente nazionale onorario della Fiap, la Federazione italiana associazioni partigianefondata dal leader azionista e primo capo del governo del dopoguerra Ferruccio Parri, la quale raccoglie i reduci del movimento di Liberazione di orientamento politicamente moderato, laico e riformista. Tonghini è l’ultimo superstite di un terzetto di compagni di battaglie che, circa 30 anni fa, si sono giurati un impegno d’onore: raccontare come sono andate le cose, tanto durante la Resistenza, quanto nell’immediato e convulso periodo postbellico in cui la forza politica egemone del fronte di Liberazione impose la legge del terrore. Le sue denunce si fondano su un archivio di documenti che è stato preservato dalla dispersione. Uomo di coraggio fisico non comune, Tonghini si fece le ossa nella formazione partigiana autonoma dei Cacciatori delle Grigne, nel Lecchese. Nella tarda estate del 1944 gli venne affidato, dal capitano «Neri» (Luigi Canali), comunista e leader carismatico della Resistenza lariana, il compito di organizzare nel Comasco i Gap-Sap, ossia i raggruppamenti combattenti di pianura e di città. Terminò la sua militanza nel movimento di Liberazione coi gradi di comandante di Brigata e nelle funzioni di commissario del Comando di Piazza di Como, ossia il direttorio provinciale dell’autorità politicomilitare, organo territoriale del Cvl Alta Italia, il Corpo volontari della libertà guidato dal generale Raffaele Cadorna. Nonostante tali qualifiche, il comandante «Stefano» è rimasto circondato da un cono d’ombra, quasi ignorato nelle pubblicazioni sulla storia della Resistenza. Peggio ancora è andata al secondo membro del terzetto, il milanese Oreste Gementi alias «Riccardo», classe 1912, nientemeno che il comandante della Piazza di Como del Cvl, ossia la massima autorità militare della provincia in cui avvennero la capitolazione del fascismo, la fine della guerra e l’epilogo di Mussolini. Il terzo personaggio è una donna: Nella Caleffi «Gina», veneta di nascita ma milanese di adozione, fin dai primi mesi del 1944 componente del Comitato militare del Cln provinciale di Como, con compiti di collegamento con la centrale del Comando generale del Cvl Alta Italia di Milano. Tonghini, Gementi e la Caleffi strinsero tra loro un patto di mutuo aiuto già nelle settimane successive al 25 aprile: un giuramento che valse loro a salvarsi reciprocamente la vita, messa gravemente a repentaglio dal «tribunale della morte» cui abbiamo accennato. Il Partito comunista, che controllava coloro che Tonghini definisce «operatori delle eliminazioni», premette sia su «Stefano» sia su «Riccardo» perché prendessero la tessera; lo scopo era associarli alla macchina infernale che agiva con brutalità contro i partigiani dissenzienti, che non accettavano la spaventosa deriva del crimine politico. Tanto Tonghini quanto Gementi, tuttavia, rifiutarono di iscriversi al partito. Non solo: negli anni Cinquanta, decisero entrambi di uscire dall’Anpi, la maggiore associazione di reduci della Resistenza, che consideravano asservita al Pci.  Nel 1985 «Gina» morì, stroncata da un male incurabile. Ma insistette con i due amici affinché saldassero un debito di verità. Il testimone venne perciò raccolto da «Stefano» e «Riccardo». Il secondo, prima di morire nel 1992, redasse e lasciò una serie di scritti «a futura memoria». Documenti che stanno alla base delle attuali denunce. Mario Tonghini, Oreste Gementi e Nella Caleffi avvertirono come incombente la minaccia già nel maggio del 1945, quando i loro compagni di battaglia cominciarono a morire uno dopo l’altro. Il 7 maggio venne sequestrato da sicari il capitano «Neri», poi ucciso a Milano; il suo corpo non venne mai ritrovato. Fu poi la volta della sua staffetta partigiana «Gianna » (Giuseppina Tuissi), gettata nel lago dall’alta scogliera del Pizzo di Cernobbio la sera del 23 giugno: colpevole di aver cercato la verità sull’assassinio di «Neri». Nel successivo mese di luglio, le acque del Lario restituirono i cadaveri di Annamaria e Michele Bianchi, padre e figlia, entrambi comunisti: come le altre vittime, erano testimoni del furto dell’oro di Dongo da parte del loro partito, il Pci. Su questi fatti Gementi cercò da subito di far luce, come si può leggere nelle pagine di un suo scritto intitolato «La sparizione del capitano 'Neri' e della 'Gianna'». Quando apprese della scomparsa di «Neri», Gementi confessa di essere rimasto «sorpreso e sconcertato, ma anche incredulo poiché non ritenevo possibile che, a guerra finita, si potesse verificare un omicidio tra compagni di lotta, dopo 20 lunghi mesi di sacrifici». E aggiunge: «Purtroppo però le indagini da me svolte, malgrado le reticenze riscontrate […], mi hanno consentito di accertare che il 'Neri' era stato effettiva- mente prelevato da un gruppo partigiano venuto da Milano, che egli seguì tranquillamente perché tra essi vi erano due o tre compagni comunisti che egli conosceva da tempo, quindi 'giustiziato' per ordine del Comando regionale garibaldino ('Fabio')».  «Fabio» era Pietro Vergani, un comunista duro e ortodosso che si era forgiato ideologicamente alla Scuola leninista di Mosca fino a divenire uomo di fiducia di Luigi Longo (il comandante «Gallo» della Resistenza rossa) e comandante della Delegazione lombarda delle Brigate Garibaldi. Gementi sostiene senza esitazioni che la firma sull’omicidio di Canali era sua. Ma non è tutto: nel suo memoriale indica chiaramente che anche l’eliminazione di «Gianna» avvenne per mano di fanatici partigiani comunisti locali. Le «squadre della morte» che imperversarono nel Comasco nei mesi successivi al cruento epilogo di Dongo, ebbero componenti molto ben identificabili. Il partigiano «Stefano» indica tra i responsabili materiali di una catena di efferatezze personaggi che ebbero un rilevante coinvolgimento nelle vicende processuali del dopoguerra. Si tratta di Maurizio Bernasconi («Mirko»), Ennio Pasquali («Nado»), Leopoldo Cassinelli («Lince»), Natale Negri e Dionisio Gambaruto («Nicola »). «Mirko» negli anni Cinquanta venne rinviato a giudizio insieme al segretario federale del Pci comasco, Dante Gorreri, e al comandante lombardo delle Brigate Garibaldi, Pietro Vergani, per concorso nell’omicidio di «Gianna». Per l’assassinio di Annamaria Bianchi finirono invece alla sbarra, oltre allo stesso Gorreri, anche Pasquali e Negri, mentre per la soppressione del capitano «Neri» furono imputati ancora Vergani e Gambaruto. «Nado» e Negri vennero incriminati anche per altri delitti. Tutti quei gravi reati finirono in prescrizione; ma il Pci in ogni caso provvide a far rifugiare il Pasquali a Praga, dove viveva la più estesa comunità di comunisti italiani latitanti. La più pericolosa fra tutte le squadracce rosse tristemente note a Como era la banda di «Lince», che aveva una vera e propria «sala di tortura» con annesse celle di detenzione in uno scantinato di via Rusconi, sotto il Caffè Rebecchi, nel pieno centro della città. Lì Tonghini venne convocato per ben due volte con il più che concreto rischio di non uscirne vivo. Insieme a Gementi egli aveva infatti deciso che bisognasse porre un argine al dilagare del crimine politico e, in qualità di comandante della Piazza del Cvl, nel giugno 1945 aveva chiesto al questore, l’avvocato liberale Davide Luigi Grassi, di spiccare un mandato di cattura contro il comunista Michele Moretti, il partigiano «Pietro», per il furto dell’oro di Dongo. E il Pci se l’era legata al dito, perché aveva dovuto far espatriare Moretti nella Jugoslavia di Tito. «Stefano» non fu da meno e andò a denunciare «Lince» e Bernasconi, dopo una rapina con un automezzo sottratto alla cooperativa partigiana di trasporti di cui quest’ultimo era responsabile; un colpo avvenuto a Olmeda, tra Como e Cantù, e che aveva fruttato 22 mila metri di seta. Rivela oggi per la prima volta Tonghini: «In quel periodo avevo la certezza di essere in pericolo di vita. Giravo armato con una pistola Mauser e a salvarmi fu il sangue freddo con il quale affrontai 'Mirko' e 'Lince'. La prima volta loro due e Natale Negri mi convocarono nella cantina sotto il Caffè Rebecchi (si era attorno a giugno del ’45) e mi rimproverarono di interessarmi della fine di 'Neri'. La seconda volta – questa volta solo Cassinelli e Bernasconi – mi chiamarono fu per contestarmi la denuncia che avevo presentato contro di loro per il furto di Olmeda». Ma non è tutto. A luglio del ’45, poco prima che venisse  trucidata Annamaria Bianchi, il comandante «Stefano» ricevette una richiesta inquietante da parte di «Nado»: «Pasquali venne da me e mi disse: 'Ho bisogno di un favore: siccome non so guidare la macchina, e ho a disposizione una Topolino, ti chiedo se mi puoi accompagnare perché devo andare a fare un interrogatorio a una certa Bianchi'. Non accettai quella proposta, fiutando che si sarebbe trattato non di un interrogatorio, ma di un’esecuzione. Infatti poi si seppe che l’omicidio della donna era stato effettuato da sicari che l’avevano prelevata con una Fiat Topolino».  Una domenica dello stesso luglio Oreste Gementi scampò a un probabile agguato mortale. In una lettera inedita del 10 ottobre 1990, posseduta in copia da Tonghini, «Riccardo» narra infatti di quando si recò a incontrare Michele Moretti a Lasnigo, un paese del Triangolo Lariano compreso tra i due rami del lago; lì il partigiano latitante era protetto dai fratelli Mariuccia e Pietro Terzi («Francesco »), elementi a servizio del Pci. Appena giunto in auto a Lasnigo, Gementi ebbe l’accortezza di avvertire i Terzi e Moretti che «Gina » era informata di quel suo viaggio; una misura prudenziale che valse a evitargli il peggio: «Mentre posteggiavo la macchina – scrive il comandante 'Riccardo' – 'Francesco' si affrettò a raggiungere la sorella e Moretti che avanzavano lentamente e non credo di essere maligno supponendo di avere sventato il loro piano con quanto detto a 'Francesco' (precipitare involontariamente da quel ponte sarebbe stata morte certa)».  La testimonianza aggiunge altri rilevanti dettagli, su tutti la convizione che il vero protagonista della fucilazione del Duce e di Claretta Petacci, a Giulino di Mezzegra, non fosse stato il colonnello «Valerio», aliasWalter Audisio, ma lo stesso partigiano «Pietro»: «Dopo lo scambio di saluti, ritenni opportuno riconfermare quanto avevo detto a 'Francesco' e, rivolto a Moretti, gli dissi 'che poteva stare tranquillo, perché il suo partito non lo avrebbe abbandonato, in quanto lui rappresentava una bandiera per essere stato l’esecutore di Mussolini', ed egli annuì scrollando il capo, senza smentire. Poi, mentre procedevamo lentamente sulla stradina che portava alla casa di 'Francesco', commentando la situazione politica, tentai, ma inutilmente, di andare sull’argomento del 'Neri', ma i miei interlocutori mi risposero che 'era meglio non parlarne', perché anch’essi non ne sapevano nulla». Sull’eliminazione del capitano Canali, così come sugli altri delitti collegati, doveva calare una pietra tombale di silenzi e omertà.
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