sabato 18 giugno 2016
​Per chi è troppo legato a internet c'è il "digital detox", la disintossicazione per giungere a un uso più libero e consapevole.
Il Web oltre la dipendenza
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Il digital detox (letteralmente 'disintossicazione dal digitale') serve davvero o è solo una moda? Non più tardi di qualche settimana fa, seguendo la vicenda dei Radiohead, spariti dal radar dei social network per un brevissimo lasso di tempo, salvo poi ricomparire, scoprendo che in definitiva era stata una semplice, seppur efficace, trovata pubblicitaria per la promozione del nuovo disco, tra i corridoi del mondo della comunicazione è spuntata per qualche ora l’ipotesi che internet così come lo conosciamo fosse ormai un mezzo superato. 

I segni di questa preconizzata decadenza della rete sono ascrivibili a una molteplicità di fattori, il primo tra i quali è senza dubbio la scoperta di tutto un ventaglio di nuove sindromi del web: la “Fomo”, letteralmente fear of missing out, paura di restare fuori dalla comunicazione; oppure la “nomofobia”, da no-mobile, timore di rimanere senza il telefono, diventato ormai, nell’immaginario collettivo, un’estensione dell’io corporeo. Le patologie da dipendenza dalla rete sono senz’altro un fenomeno in aumento, ma è necessario non generalizzare, né demonizzare il problema. Per la prima volta, infatti, il Dsm-5, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ha introdotto lo Iad, Internet addiction disorder, facendo seguito a quella che già più di dieci anni fa, fu indicata come una provocazione da Ivan Goldberg, negli stessi anni in cui Kymberly Young si interessò, tra le prime autrici al mondo, a un fenomeno che già allora aveva in previsione di diventare dilagante, cominciando a strutturare quelle che potevano essere le prime strategie di disintossicazione. 

Giuseppe Lavenia, psicologo clinicopsicosomatista, docente di Psicologia Clinica e responsabile dell’Area Nuove dipendenze presso il Centro studi e ricerche Salus, spiega quali sono alcuni dei motivi per cui la cura della web-dipendenza non sarà il superamento di internet, ma una maggiore comprensione del mezzo: «Le caratteristiche per diagnosticare le dipendenze tecnologiche sono simili a quelle per le altre dipendenze comportamentali. L’isolamento sociale è uno degli aspetti più importanti, così come la rabbia che si innesca una volta fatto allontanare il dipendente dall’attività che crea la dipendenza. Un altro fattore piuttosto evidente, chiaramente, è la quantità di ore. La fascia più a rischio è quella degli adolescenti e la maggior parte delle volte la segnalazione avviene o tramite la scuola, oppure per via di un genitore preoccupato, perché un altro dei tratti tipici delle dipendenze è la negazione del problema». Sull’annosa questione se sia meglio prevenire o curare, Lavenia non si sbilancia: «Nello specifico credo sia bene distinguere tra prevenzione e diagnosi pura, ma in nessun caso sono d’accordo con l’approccio di eliminare completamente la tecnologia, perché quello su cui insisto sempre quando faccio prevenzione nelle scuole è che la parola dipendenza andrebbe messa tra virgolette, essendo qualcosa che si inserisce nella vita del soggetto, e di conseguenza è necessaria per quella persona. Il vero lavoro non è eliminare il problema togliendo la tecnologia, ma capire qual è l’origine del problema da un punto di vista clinico». 

La questione, però, va affrontata in maniera differente tra adulti e adolescenti, poiché per i secondi l’importanza del medium è di vitale importanza comunicativa, specialmente in ambito affettivo: «Personalmente consiglio sempre di staccare la spina dopo un certo numero ore e utilizzare i devices in maniera consapevole; questo vale sia per i ragazzi che per gli impiegati di una grossa azienda multinazionale, ma lavorando con le aziende organizziamo anche weekend interi in cui all’inizio della sessione si lascia tutto e si lavora sul benessere, con la possibilità di guardare il cellulare una sola ora al giorno. Sono giornate che servono a dimostrare come cambino i parametri vitali anche solo accendendo il dispositivo. Sono sessioni davvero importanti per ottenere una piena consapevolezza, perché si può verificare in maniera concreta il benessere da un punto di vista fisiologico, lavorando sulle emozioni e con il biofeedback come una sorta di macchina della verità».

Dello stesso avviso, ma con una metodologia parzialmente differente, è Stefania Sabatini, co-fondatrice insieme ad Alessio Carciofi di “Your digital detox”, progetto strutturato a partire da un fenomeno iniziato negli Stati Uniti, che ha avuto un forte impatto sull’individuo, ma anche sulle aziende. «Il digital detox è un momento di distacco da apparecchi digitali, social network e tutto ciò che ci assorbe quotidianamente, favorendo la connessione con noi stessi e con chi ci circonda. Il digitale sta diventando una dipendenza, viviamo il fenomeno sulla nostra pelle, ma siamo ignari. Il primo ostacolo che abbiamo affrontato era proprio con le persone della nostra generazione, che da un momento all’altro si sono ritrovate a utilizzare strumenti di cui erano totalmente inconsapevoli. I cosiddetti millennials spesso padroneggiano la tecnologia a livello tecnico, ma non conoscitivo, perché è venuta a mancare una fase vera e propria di formazione dell’individuo, che si riscontra anche nella formazione professionale. C’è stata in pochi anni una forte accelerazione tecnologica dalla quale non si può tornare indietro, ma proprio per questo motivo non si può più fare a meno di internet. Stiamo andando, semmai, verso un’iper-connessione delle cose, quindi non va eliminata la tecnologia, bisogna imparare a gestirla, prima come individui e poi come aziende. Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge sullo smart working e potrebbe essere un cambio epocale nella gestione del lavoro».

Sulla pronosticata fine di internet, Sabatini è piuttosto concreta: «Io parlerei di fine di internet come strumento che ci fagocita e ci fa perdere la connessione con noi stessi, mentre il lavoro da fare è concentrarsi su un nuovo modo di consultare il mezzo, cercando un equilibrio tra la velocità dello strumento e la qualità che ci permetta di essere e restare ancora e sempre individui. La chiave di volta è la consapevolezza, primo passo per guarire passando attraverso un vero e proprio processo di benessere, ma prima dobbiamo capire cos’è per noi il benessere. Viviamo in un mondo in cui siamo tutti iper-stressati, perché andiamo troppo veloci per essere all’altezza delle aspettative altrui, cercando in tutte le maniere di essere multitasking e sempre perfetti. La “felicità digitale”, invece, vuole essere un ritorno al passato: prima cerchiamo l’individuo e poi lo portiamo nel digitale; diversamente, soprattutto se manca la coscienza, diventa più difficile produrre». Tutto ciò si può fare dedicando la giusta attenzione alla disconnessione, ma non intesa come offline, piuttosto come un’integrazione dell’online, poiché bisogna considerare che i due spazi oggi si intersecano a formare un continuum che fa parte indistintamente del tempo di tutti. Un tempo che, forse, per essere migliore di così, avrebbe solamente bisogno di essere un po’ più lento.

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