mercoledì 2 settembre 2015
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A dispetto dei suoi 99 anni, Manlio Cancogni (morto ieri nella sua casa di Marina di Pietrasanta, in provincia di Lucca: i funerali si svolgono oggi alle 10.30 presso la chiesa di Sant’Antonio a Tonfano) era rimasto il ragazzo che rischia di perdere il treno perché era troppo impegnato a ripetere a memoria le poesie predilette. È uno degli episodi consegnati nel 1998 alle pagine di Matelda, uno dei libri che, nel passaggio tra un millennio e l’altro, hanno salutato la seconda giovinezza di questo scrittore anomalo ed elegante. L’eleganza, ecco: era forse la virtù principale di Cancogni. Lo testimonia la sua prosa purissima, lo dimostrava il suo modo estroso di indossare un berretto o di portare in giro per il mondo il suo bel naso cyranesco, così tipicamente toscano. Eleganza o, meglio, sprezzatura, parola che non per niente era stata l’emblema del fiorentino Guicciardini. A chi gli chiedeva della celebre inchiesta sui mali di Roma da lui firmata nel 1955 per “l’Espresso” (sì, quella di “Capitale corrotta, nazione infetta”: roba di sessant’anni fa, non facciamo troppo i permalosi), Cancogni rispondeva minimizzando: avevamo chiesto un’intervista al sindaco, il Campidoglio l’aveva negata, qualcosa dovevamo pur pubblicare... Come molti della sua generazione, Cancogni era arrivato al giornalismo per necessità e, insieme, per passione civile. Prevalentemente per passione civile, anzi, anche se poi, con il passare del tempo, aveva conosciuto anche i lati meno entusiasmanti della professione. La prima volta che lo spedirono negli Usa con l’incarico di seguire la rampante economia americana, Cancogni passò diverse settimana in preda allo sconforto. I listini di Borsa gli risultavano parecchio più ermetici dei versi di un poeta come Carlo Betocchi, da lui considerato fra i massimi autori del Novecento. Di famiglia versiliese, era nato a Bologna il 16 luglio del 1916, ma la sua formazione era stata tutta romana: liceo, università, l’incontro con il quasi coetaneo Carlo Cassola, destinato a diventare l’amico di sempre. Il loro sodalizio giovanile aveva trovato trasposizione narrativa in Azorin e Mirò, il libro che nel 1968 rappresenta una tappa importante nell’avventura letteraria di Cancogni. L’ambientazione spagnoleggiante non è casuale, perché della letteratura iberica Cancogni era stato un lettore appassionato. Non solo di García Lorca e degli altri lirici novecenteschi, ma anche della grande mistica barocca, con una predilezione mai rinnegata per san Giovanni della Croce. Era questa la radice del suo cristianesimo, coltivato con pudore per tutta la vita e apertamente dichiarato, sia pure con la consueta delicatezza, solo negli ultimi decenni. Insegnante di filosofia nei primi anni della guerra, richiamato più avanti sul fronte greco e albanese, dopo la liberazione Cancogni si dedica definitivamente al giornalismo. Prima a Firenze, nella redazione della “Nazione del Popolo”, e in seguito a Milano, dove la sua carriera prende il largo: “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Europeo”, le corrispondenze da Parigi e New York, che segnano l’approdo all’“Espresso”, appunto, il giornale al quale il suo nome resta più legato. Nel frattempo – dopo i primi racconti apparsi in rivista e un romanzo, Delitto sullo scoglio, avvistato nel 1943 – Cancogni esordisce davvero come narratore nel 1956, con La carriera di Pimlico, magnifico apologo di un purosangue riluttante nel quale non è difficile scorgere un allusivo autoritratto. A partire dagli anni Sessanta Cancogni gode di un buon successo di pubblico e di sicura stima critica. Vince il Bagutta nel 1966 con il romanzo di ambientazione La linea del Tomori (riproposto lo scorso anno con l’originario titolo Signor tenente), nel 1973 si aggiudica lo Strega con Allegri, gioventù!, nel 1985 il Viareggio con Quella strana felicità, nel 1987 il Grinzane-Cavour con Il genio e il niente, ispirato alla biografia del pittore seicentesco Guido Reni. La vera riscoperta arriva negli anni Novanta, per merito dello scrittore Simone Caltabellota, che nella sua veste di editor per Fazi e, più di recente, per Elliot inizia a patrocinare il rilancio di alcuni titoli del passato (tra cui il romanzo Parlami, dimmi qualcosa, già apparso nel 1962) e, più che altro, accompagna la straordinaria fioritura tardiva di libri come Lettere a Manhattan (1997), il già ricordato Matelda, la parabola calcistica del Mister (2000), fino alla consacrazione della Sorpresa, il volume – premiato dal Pen Club nel 2010 – che riordina i racconti composti tra il 1936 e il 1993. Recentissime le confidenze e le rievocazioni raccolte rispettivamente da Caltabellota (Tutto mi è piaciuto, Elliot, 2013) e Giovanni Capecchi (Il racconto più lungo, Interlinea, 2014). Cancogni è tutto da leggere, tutto da ammirare. Ma se si potesse esprimere una predilezione, questa andrebbe probabilmente all’autobiografico Sposi a Manhattan, edito da Diabasis nel 2005: l’amore per la moglie Rori, il lutto per la morte della figlia Annapaola, l’appartamento di New York attorno al quale ruota l’esistenza intera mentre il vecchio scrittore prende in mano, ancora una volta, la sua copia dei Promessi sposi.
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