giovedì 19 febbraio 2015
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Fateci caso. Le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del loro agire, forniscono risposte di rara semplicità: ho fatto quel che dovevo, chiunque avrebbe fatto lo stesso, non c’era altro da fare... Il che non significa che dietro l’azione non ci sia un pensiero: «Il pensiero c’è ma è radicalmente semplice. Nel senso che è essenziale: sa dov’è l’essenza delle cose». Questo pensiero è passione per il bene dell’altro, «con una forza etica che non viene prima della coscienza ma piuttosto è la voce di una coscienza che sa ciò che è irrinunciabile e da la lì orienta il suo essere». Luigina Mortari dirige il dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’università di Verona dove, presso la Scuola di Medicina e Chirurgia, insegna Epistemologia della ricerca; e chiarisce il concetto ricorrendo alla parabola del buon samaritano, che invece di tirare dritto come gli altri passati prima di lui, vide l’uomo per terra, lo guardò ed ebbe compassione: «Il buon samaritano ha visto un’ingiustizia, l’ha registrata e ha pensato di dover agire. La presa in carico dell’uomo ferito è stata preceduta da una valutazione razionale, per quanto fulminea, che informa e dirige l’azione. Perché la compassione non è un atto irrazionale ma è intriso di pensiero. C’è il pensiero alla base di ogni azione di cura. Per questo alla cura si può essere educati». L’ultimo libro di Mortari si intitola Filosofia della cura (Raffaello Cortina, pp. 226, euro 19), una cura che lei definisce «fenomeno ontologico sostanziale all’esserci ». Tradotto: una vita buona non può tralasciare la premura verso il prossimo, la sollecitudine a favorire il benessere del-l’altro, l’impegno a far fiorire le sue possibilità. Come fa un buon insegnante, per esempio, con un gran dispendio di energie ma ottenendo in cambio una restituzione di senso che non ha uguale. E che lo fa sentire bene: ben-essere. È questa l’essenza della cura: «Consiste nell’essere una pratica e accade in una relazione, è mossa dall’interessamento per l’altro, orientata a promuovere il suo ben-esserci; per questo si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro». Mortari prosegue: «La cura è non è un sentimento o un’idea ma un atto, perché è qualcosa che si fa nel mondo in relazione con altri. E se – come sostiene Heidegger – gli esseri umani 'sono ciò che vanno facendo', allora si può dire che il modo di fare la cura rivela il modo di essere». Perché ben-agire e ben-essere sono coincidenti: «Ci sono azioni di cui sentiamo la necessità. Vedere la giustezza della cosa da fare ci decide a metterla in atto, a prescindere dal calcolo di cosa potrebbe derivarne. Si fa gratis perché qualcosa di buono accada, ricavandone un piacere etico: cioè il piacere che viene dal sapere di fare ciò che è essenziale fare». Mettendoci passione, come sempre si fa per le cose importanti: la passione è ciò che dà forza alla mente: «La cosa più importante è lavorare per il bene ma anche stare bene. Questa convinzione dà forza alla mia mente. Le idee inerti non portano a nulla, mentre quelle vive si nutrono di passione. Bisognerebbe stabilire un ordo amoris, un ordine dell’amore e delle sue priorità». Ed è sempre l’agire del buon samaritano a rispondere alla domanda che Alcibiade pone a Socrate: in che cosa consiste l’aver cura in modo giusto? «Socrate – prosegue Mortari – usa il termine orthos, che indica il punto di equilibrio perfetto. Azzardo anch’io una risposta, interpretando il giusto con l’equilibrio: l’occuparsi di sé e l’occuparsi dell’altro, fare da sé e delegare, sapere fino a che punto agire per l’altro o interpretare la cura come lasciare che l’altro agisca da sé». Noi esseri umani siamo inevitabilmente soli ma lo siamo in mezzo a una moltitudine: quando un essere umano comincia a esistere, di fatto comincia a coesistere: «Essere consapevoli di avere bisogno di abbracci e di carezze, di una parola gentile e di uno sguardo benevolo non è sentimentaleria ma una cosa umanamente vitale. Sentirsi dentro una relazione di cura è una necessità ineludibile che ci accompagna per tutto il tempo della vita». Ma cosa mette in moto questa relazione? «L’interesse per l’altro. Guardarlo sentendosi in connessione con lui, cogliere la sua situazione di necessità. Ma identificare i bisogni non è semplice. È facile individuare le necessità biologiche, però c’è anche molto altro». Bisogni relazionali, affettivi, spirituali cognitivi, estetici, politici... È oggettivo che ogni persona abbia bisogno di una giusta quantità di cibo. È soggettivo – un dato culturale – quale tipo di cibo è fondamentale garantire a ciascuno. «Il segreto è prestare attenzione, consentire all’altro di mostrarmi le sue esigenze, accogliere quello che dice di sé, interpretare le differenti necessità. Senza mai essere remissivi. Sbaglierebbe – prosegue Mortari – chi assecondasse una persona che esprime un bisogno non buono. Educare significa coltivare, noi stessi e la nostra anima, dare una forma migliore al nostro essere. Educare anche alla passione per sé». La cura è un atto culturale e non esiste vita senza cura. Eppure, nella pratica è continuamente svilita: i medici prescrivono terapie e gli infermieri le somministrano senza più prendersi il tempo di stabilire una relazione vera con il paziente, costretti dai tagli di bilancio a sacrificare l’empatia all’efficienza, a stare dentro i tempi dettati dal mercato del lavoro. La stessa cosa capita a scuola, dove si rincorrono programmi ed eccellenze trascurando la grandezza che ciascuno porta in dote e che dovrebbe essere stimolato a scoprire e mettere a frutto. «L’attenzione è un gesto cognitivo primario. E quando è appassionata, concentrata sull’altro – conclude Luigina Mortari – niente la può smuovere. Diventa anche un gesto etico. Tenere l’altro nel proprio sguardo è il primo gesto di cura».
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