giovedì 18 febbraio 2016
Corradi, vita speciale di un inviato
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Titolo: “Fausto Coppi si è spento. Vittima del morbo misterioso”. «Il viso del campione era sereno, da dormiente. I capelli neri e fitti si stagliavano un po’ spettinati, sopra il candore del cuscino. Le lunghe narici dell’atleta di razza sembravano ancora palpitare...». Così, il 2 gennaio del 1960 sulle pagine del “Corriere della Sera” vergava il suo scriba massimo, Egisto Corradi. Quel giorno di lutto nazionale era lì, a Tortona, al capezzale del campionissimo del ciclismo - passando e osservando silente tra Bartali, la vedova di Coppi e la Dama Bianca - per raccontare con il suo stile inconfondibile, profondissimo nella sua essenzialità. Un estratto da romanzo popolare che il giorno dopo il pubblico del Corrierone avrebbe piacevolmente ritrovato in pagina e letto – quasi fosse la sceneggiatura di una pièce teatrale – nelle sue impareggiabili cronache terrestri. Quello in morte di Coppi è uno dei cinquantanove memorabili articoli ora raccolti in Egisto Corradi. Reportages 1945-1974( Fondazione Corriere della Sera, pagine 528, euro 16,00). Un’«antologia personale, per dirla alla Borges» come informa il curatore, Franco Contorbia, a cui si deve questa summa parziale (sono migliaia le prove quotidiane d’autore di Corradi) eppure esaustiva nell’identificazione dello stile unico e originale dell’autore, pensata con la passione e la grazia dello specialista. Un libro che d’ora in poi non dovrà mancare nella biblioteca del giovane praticante che aspira al mestiere di giornalista, ma anche in quella di chi ha dismesso la pratica di concepire la professione, esaltandone come Corradi fece magistralmente, secondo l’autentico valore civile e culturale che ancora rappresenta. Un mestiere di scrivere che, avvertiva, per assaporarne il senso andrebbe vissuto come missione. «Avevo un deciso debole per il giornalismo. Lo avevo al punto che fin da bambino diventavo rosso di brage quando passavo davanti alla “Gazzetta”. Così il giovane Egisto (classe 1914) ricorda la sua folgorazione iniziata con il semplice passaggio davanti alla redazione della “Gazzetta” della sua città, Parma. Un apprendistato svolto con la signorile umiltà che lo contraddistinse per tutto il suo lungo e luminoso cammino. La scrittura e il racconto di cronaca come puro ossigeno per l’informazione, al punto che il direttore della “Gazzetta di Parma”, Giorgio Rosso, che era disposto anche a pagarlo, si sentì rispondere dal ragazzo di “bottega” messo alla prova: «Non voglio nulla. Lavoro solo per passione». Personalità già forte di un iniziato, per via del tutto naturale, all’“artigianato” del reportage.  La linea del tranvai n.4 il tram che andava dal centro alla periferia della città emiliana, fu il suo primo vero pezzo da inviato, il cui compito fondamentale - e anche questo parzialmente caduto nell’oblio del giornalismo contemporaneo - è il «saper coniugare un solo verbo, scarpinare». E la sua antologia personale certifica i chilometri coperti con ogni mezzo e in ogni condizione e il conseguente consumo industriale delle suole delle scarpe del «giornalista viaggiante», alias l’inviato speciale. Un viaggio intercontinentale iniziato nell’agosto del 1945 in via Solferino, in una Milano, con anco- ra impresse le miserie e le cicatrici della seconda guerra, in cui era arrivato forte solo della medaglia d’argento al valore e le 7mila lire in tasca concessegli per il valore militare, come arruolato nella Divisione Julia. Il Corradi autore di quel saggio capolavoro che è la La ritirata di Russia( Longanesi 1964) era stato assunto al Corriere come specialista dei reportage d’emergenza (il direttore, Borsa, lo spedisce subito sul San Bernardo tra gli emigranti clandestini). Andare, toccare con mano, verificare di persona, sono i tre capisaldi della poetica corradiana che dovrebbero valere per l’intera categoria giornalistica di ogni epoca e di ogni Paese che possa vantare una stampa davvero libera.  E di questa libertà di pensiero, volta alla verità, l’inviato Corradi è stato un paladino assolutamente speciale. Sfruttando al meglio la giusta distanza e con il talento del narratore prestato alla pagina di giornale ha nobilitato il genere delle microstorie quotidiane, che siano quelle dei salsesi emiliani o dell’ultimo indigeno del Brazzaville. «Questa, la microstoria, è la materia prima del giornalismo. Anche tutto il resto che c’è in un giornale - o quasi tutto - è giornalismo. Ma la cronaca, ossia il fatto, ne è la vera essenza», sottolineava Corradi che di ogni dettaglio di quella cronaca inseguita, dai vicoli dei borghi di provincia fin dentro la jungla della guerra del Vietnam, si sentiva divulgatore responsabile nei confronti del pubblico sovrano. Ai tanti lettori affezionati che gli avevano concesso il privilegio di vivere di scrittura sapeva di non poter mentire mai, e solo nell’otium del satiro si concedeva l’ironica ammissione: «Ogni tanto c’è qualche inviato cui scappa di dire anche la verità». Stilettata del cronista temerario, nominato capitano sul campo di battaglia dalle truppe adoranti dei giovani colleghi in odore di emulazione. «Egisto era il principe degli inviati di guerra. Era anche il mio idolo... Durante la piena del Po aveva piantate le canne sugli argini per controllare il livello dell’acqua: non si fidava dei dati ufficiali. Le sue corrispondenze dall’Afghanistan per noi che cominciavamo ad andare per guerre e avevamo vent’anni in meno, erano testi sacri», confessa un nostalgico e raro esemplare di giornalista viaggiante come Ettore Mo. «Sui fatti di guerra e non soltanto di guerra, Corradi era la Corte di Cassazione», sentenziò convinto Indro Montanelli. Un giudice inflessibile con se stesso, quanto comprensivo con il resto del “collegame”, «ognuno ha la sua specialità e le sue stramberie». L’eccentricità di Corradi stava tutta nella sua bisaccia con cui affrontò la tragedia del Vietnam, un bagaglio accessoriato da «un accendino a benzina acquistato sulla portaerei Coral Sea, una tazza con l’emblema della portaerei Constellation acquistato allo spaccio della stessa unità, una borraccia militare americana comperata anch’essa al mercato nero, una tazzina...». Era la valigia del filosofo del realismo in cronaca, verificabile solamente arrivando alla fonte originaria. Un narratore che ha difeso fino all’ultimo (Corradi è morto a Milano nel 1990) la dignità del mestiere, «faticoso sia per l’intelletto che per il corpo », e che «sarà meno romantico ed esotico di un tempo. Come alone, però. Soltanto come alone. Per il resto il mestiere c’è sempre come una volta, completo e tutto». La completezza di chi deve sapersi calare nel cuore degli eventi e in quanto inviato speciale saper scrivere di tutto o quasi, sport compreso. Cosa che Corradi fece, tra il Natale del 1950 e il febbraio del 1951, partecipando alla prima edizione del Rallye Mediterraneè-Le Cap (Da Algeri al Città del Capo, reportage da poco ripubblicato in Africa a cronometro, Corbaccio). Al termine di quel viaggio, l’inviato che per la prima volta scopriva il Continente Nero dove poi per mestiere sarebbe tornato molte volte - scriveva del rimpianto «per il non potuto vedere meglio, per il non potuto toccare, il non potuto sentire». Perché «è il vedere e riferire che conta» e per farlo Corradi insegna che è vitale per la sopravvivenza del giornalismo e della concreta utopia dell’inviato speciale, «andare, vedere e raccontare subito possibilmente per primi, con il cuore in gola».
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