mercoledì 21 maggio 2014
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In questi giorni un premio dagli psi­coanalisti e un libro con uno psi­chiatra, in una carriera da neuro­scienziato cognitivo. Incarna la figu­ra di studioso che ama le contami­nazioni disciplinari Vittorio Gallese, docente di neurofisiologia all’Uni­versità di Parma, ma senza cedimenti nel rigore della ricerca. È infatti uno degli stu­diosi italiani più noti al mondo nel suo set­tore, 'padre', insieme con Giacomo Rizzo­lati, dei neuroni specchio. «Sin dal principio, viviamo la nostra vita con l’altro». Così si apre il libro da lei scrit­to con Massimo Ammaniti. Tutti hanno un’idea intuitiva dell’intersoggettività, ma che cosa emerge dal suo studio scientifi­co? Perché parlate di nuovo approccio? «L’attuale visione standard della mente u­mana e dell’intersoggettività, quella cogni­tivista, è viziata da due problemi. Il primo riguarda la sua natura solipsistica: la di­mensione sociale, la presenza degli altri non sono considerati aspetti fondanti. La men­te è considerata una sorta di computer che manipola simboli astratti: capire l’altro non è molto differente dal risolvere un’equa­zione, applicare una teoria della mente del­l’altro. In tutto ciò il corpo non compare, non sembra svolgere alcun ruolo cogniti­vo. Perciò proponiamo una visione radical­mente differente dell’intersoggettività, del­la sua origine evolutiva e di come si svilup­pa nei bambini attraverso il quotidiano rap­porto con la madre e gli altri esseri umani. Questo nuovo modello è fondato su solide evidenze empiriche degli ultimi decenni. Cervello e corpo formano un sistema in­scindibile: non si capisce il cervello se lo si separa dal corpo. Inoltre, secondo il nostro modello il tema della relazione con l’altro è cruciale. Lo sviluppo dell’intersoggetti­vità comincia già prima della nascita, al­l’interno del grembo materno. Dalle prime ore di vita il neonato svolge un ruolo attivo nel sollecitare e intratte­nere un rapporto con la madre. Non a caso una delle illustrazioni del no­stro libro presenta la bel­lissima Madonna col Bambino di Artemisia Gentileschi della Galle­ria Spada, dove il bam­bino tocca gentilmente con la mano il volto del­la madre assopitasi per la stanchezza. L’altro grande elemento di no­vità consiste nel mo­strare che esiste anche un accesso più diretto all’altro, in cui la simu­lazione delle azioni, del­le emozioni e delle sen­sazioni altrui gioca un ruolo fondamenta­le. È un modello di intersoggettività rela­zionale, che assegna alla corporeità un ruolo centrale». Come genitori possiamo imparare che l’e­voluzione non ci abbia già 'scritto' nelle nostre tendenze e nelle reazioni istintive? «Certamente. L’espressione dei nostri geni è influenzata dall’incontro con l’ambiente. Dovremmo lasciarci alle spalle sia il mec­canico determinismo genetico sia l’appa­rentemente netta distinzione tra natura e cultura. Le attuali conoscenze scientifiche mostrano quanto importante sia la qualità delle nostre relazioni con i nostri figli nel favorirne o pregiudicarne lo sviluppo co­gnitivo e psico-affettivo». I neuroni specchio, straordinaria scoper­ta, sembrano dirci molto sui meccanismi di comprensione dell’al­tro, sull’empatia (e non tutti sono d’accordo)... Questo filone di studio di carattere neurobiologico quanto integra, confligge o addirittura sostituisce i tradizionali approcci psi­cologici? «I neuroni specchio, neu­roni motori che si attivano sia quando eseguiamo un’azione sia quando la vediamo eseguire da altri, rappresentano in realtà la punta di un iceberg. Nel corso degli anni, sono sta­ti scoperti meccanismi di rispecchiamento analoghi anche per il dominio del­le emozioni e delle sensazioni. Il mio mo­dello della simulazione incarnata è un ten­tativo di fornire una spiegazione integrata di tutti questi fenomeni. Pensiamo che que­sti vari meccanismi di rispecchiamento ci consentano di comprendere l’altro dall’in­terno e costituiscano una componente es­senziale dell’empatia. Il livello di descri­zione delle neuroscienze non è alternativo alla psicologia, ma indaga i meccanismi neurofisiologici che sottostanno alle nostre facoltà mentali e psichiche. Le scoperte del­le neuroscienze possono contribuire però a rivedere molti concetti psicologici. Dopo la scoperta dei neuroni specchio e della si­mulazione incarnata, oggi sappiamo che la percezione visiva non è esclusivamente il frutto dell’attività del cervello 'visivo'. Guardare il mondo implica anche attivare il sistema motorio, quello tattile e quello limbico delle emozioni. Lo studio del cer­vello ci permette di descrivere meglio la no­stra psicologia». Il premio Musatti della Spi che le viene con­segnato domani è un importante ricono­scimento da parte della comunità psicoa­nalitica. Che tipo di dialogo c’è tra il freu­dismo e l’approccio parzialmente riduzio­nistico sulla men­te che ha lei? O si trat­ta di inverare il progetto schiettamente biologistico che Freud aveva chiaro e non poté realizzare? «Freud era un neurologo, uno scienziato. Il suo progetto iniziale mirava a trovare una relazione tra psiche e cervello, ma presto si accorse che la neurobiologia a lui contem­poranea non era ancora in grado di fornir­gli le risposte che cercava. Così nacque la Metapsicologia. Il pensiero psicoanalitico ha continuato a evolversi dopo Freud e og­gi attribuisce un’importanza crescente al tema dell’interpsichico e dell’intersogget­tività. Le neuroscienze cognitive e la psi­coanalisi condividono molti obiettivi: en­trambe ambiscono a spiegare chi siamo con metodologie e linguaggi differenti. Il dialo­go tra le nostre discipline credo sia non so­lo auspicabile ma necessario. Le scienze della psiche oggi non possono non con­frontarsi con le neuro­scienze. Allo stesso tempo, le neuro­scienze cognitive non possono ridursi a una traduzione neurode­terministica della natu­ra umana, ma devono mettere al centro della pro­pria ricerca la pienezza del­l’esistenza umana e l’espe­rienza che ognuno di noi ne trae. Per farlo, il contributo della psicoanalisi, così come quello della psicologia e delle scienze umane, è secondo me imprescindibile».
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