mercoledì 31 agosto 2016
Cecchi,quel critico fedele
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Si compiono i primi cinquant’anni dalla morte di Emilio Cecchi, registrata il 5 settembre 1966. Giova subito dire che senza la figura di Cecchi alla storia letteraria della prima metà del nostro Novecento mancherebbe non una presenza, bensì un maestro e una lezione: per essere egli stato inventore di forme e contenuti originali, prosatore che nella scrittura nobilitava il lessico, levigava le coloriture, dava peso alle virgole. Orchestratore unico, inimitabile. Non uno degli scrittori italiani cresciuti e accreditati dopo di lui si riconobbe suo discepolo. Volumi come Pesci rossi (1920) e Corse al trotto (1936) non c’è letteratura che possa vantarli. La sua percezione critica si affinò acutissima e non fu mai disgiunta da una ponderante attenzione agli affetti e ai valori morali e religiosi che rendono civili l’uomo e i popoli. Fu appunto la sua autonomia ad avvicinarlo e introdurlo alla fede cristiana, ai misteri che essa sottende, al credere oltre lo sguardo umano. Del libro Qualche cosa( Carabba, 1931) posseggo l’edizione accresciuta fornita da Sansoni nel 1943. Riporto da questa seconda: «La pacata libertà dei grandi spazi architettonici, il tono e quasi il rombo di quell’immenso silenzio, si dilatano e sovrastano alla ressa edilizia, all’affollamento cittadino. 

Sono come un sentore d’isole placide e velate, dentro una burrasca. Non mai come a questo modo la chiesa è il luogo dei poveri, dove i poveri e gli afflitti entrano a scordare i loro casi; affrancati un minuto dalla servitù sociale, dalla continua imposizione degli altri. Poter stare un minuto soli; questa necessità suprema. E soli, non in ribellione e disperazione; ma in fiducia, o almeno in oblio di se stessi. La chiesa è la galleria, la biblioteca, la sala di musica, il salotto spirituale dei poveri. E, insieme a tutte queste cose importanti, è qualcosa di più importante di tutte queste cose.

È l’unico posto dove miracolosamente è risanata ogni ferita alla umana dignità, e dove il meschino è uguale al potente. E il raggio di sole dall’altissima vetrata, sembra marcare, sul quadrante della terra, un’ora che non sarà distrutta dal tempo» ( VII - Interno di Chiesa). Cecchi fu nominato Accademico d’Italia nel 1940 e Accademico dei Lincei nel 1947. Il suo vero prodigio di fiorentino purosangue è nell’essersi fatto da solo, da sé, da geniale autodidatta, espandendo l’intelligenza sortita nel nascere. Era venuto al mondo nel 1884 in una famiglia non ricca. Il padre lavorava in un deposito di ferramenta, la madre nel proprio laboratorio di sartoria. Gli toccò imparare alla scuola della vita. Si preparò da solo e prese la licenza media, quindi si iscrisse a una scuo- la tecnica. Presto trovò impiego nel Credito Italiano, di là passò a fare il copista in ufficio all’ospedale di città. Intanto leggeva e studiava notte e giorno, e alla fine conseguì da privatista la maturità classica sostenendo l’esame nel liceo Cicognini di Prato.

Compì poi i suoi studi nella facoltà di lettere all’Istituto di studi superiori Fiorentini. Partecipò alla Prima grande guerra congedandosi col grado di capitano. Subiva il fascino della liturgia ecclesiale. Leggiamone l’affondo. «Le grandi chiese barocche si spalancano e fiammeggiano come grotte e cave di pietre preziose, ma subito per oscurarsi e suddividersi in centinaia di celle e cappelle dove nascondere il rossore, covare la miseria, perdersi nel rimorso. Policrome e multiformi, queste chiese a ciascuno offrono un tabernacolo, un simbolo, una divozione: la reliquia nella teca rutilante in fondo a un sotterraneo, il giglio della convalle morbidamente intagliato in un cristallo di rocca; lo scheletro in marmo giallo che scuote l’inferriata e vocifera all’orecchio del genuflesso. Una di queste chiese si è annidata quasi di nascosto dentro un monumento dell’antico e ingenuo entusiasmo religioso.

La forza del tempo scivola sulla casta nudità di linee d’una chiesa trecentesca, come un colpo sulle lucide curve d’una corazza. E così una chiesa del Rinascimento: luoghi di salute e chiarezza civile. E son le chiese che veramente rendono immagine del Paradiso, o almeno l’Eliso: luoghi di evidenza e dove proprio non c’è da nasconder nulla; dove la gioia è nel sentirsi uniti e visti. L’intima preghiera si fonde, s’incanala e sfoga in grandi inni collettivi, che lasciano assolte e leggere le anime, e nitide l’atmosfera e le mura come lavate da un vento.

Chiese per fanciulli e per eroi; quanto le altre sono chiese per psicologi: vale a dire tristi peccatori» ( VIII – Chiese barocche). Con pari sapienza Cecchi si tenne su due percorsi speculari e paralleli, di qua le ricognizioni letterarie, di là le incursioni d’arte. Queste le opere maggiori: Studi critici (Ancona, 1912), Storia della letteratura inglese del secolo XIX (Milano, 1915), Trecentisti senesi (Roma, 1928), Donatello (Roma, 1932), Scrittori inglesi e americani (Lanciano, 1935), I grandi romantici inglesi (Roma, 1957), Ritratti e profili (Milano, 1957), Scultura fiorentina del Quattrocento (Milano 1957), Libri nuovi e usati (Napoli, 1958). Si occupò di cinema e di sceneggiature, fu direttore della Cines. Negli ultimi tempi progettò e diresse con Natalino Sapegno la monumentale Storia della letteratura italiana in nove volumi (prima uscita, 1965). 

 Intercettava, attingeva, interpretava. Mirabile è il seguente inserto. «Il sagrestano, poi che finimmo il giro delle navate, cercò nel mazzo delle chiavi, e aprì il cancellino che, dietro all’altar maggiore, introduce nel coro, famoso per gli intarsi dei suoi stalli. I motivi raffigurati avevano una gentilezza di racconti popolari. Per parecchie centinaia d’anni, alcuni uomini, votati a certi princìpi, s’erano ritrovati, a ore determinate del giorno e della notte, fra quelle mura e su quei banchi; e occupati nelle stesse pratiche rituali, avevano spesa insieme gran parte della propria esistenza; ed avevano saturata l’atmosfera come di una presenza misteriosa ed incancellabile, nello stesso tempo che, a forza di gomiti e ginocchia, e dando di schiena sulle spalliere, mentre cantavano i salmi, avevano fornito agli intarsi il più bel lustro e la più bella pulitura, li avevano impregnati d’una vernice, dirò così, fatta di grassi, essudati ed altri umori vitali; vernice di tempo, come quella degli stradivari più eletti» (IX – Tarsie). 

 Elzevirista al Corriere della Sera, elaborava i pezzi in prima e seconda stesura standoci sopra due giorni, quindi batteva a macchina rivedendo qualcosa. Ripiegati i fogli nella busta, non la chiudeva. Alle dieci di sera correva in tassì alla stazione Termini, in macchina decideva se cambiare un aggettivo, se espungere o aggiungere un avverbio. Alla ferrovia chiudeva e spediva fuorisacco. L’indomani mattina le pagine erano in redazione a Milano. Tra gli scrittori di primo pelo circolava il detto «Cecchi sì, Cecchi no», che in versione ironica suonava «C’è chi sì, c’è chi no», a significare che il suo motivato giudizio accreditava o screditava per sempre. Le sue erano letture di un’onestà assoluta. Ma torniamo al Cecchi pensoso d’una civiltà non transeunte. «Ora i ragazzi fanno il bilancio dei loro quattrinelli.

Andando a scuola, adocchiano dal cartolaro la cometa, il gloria in excelsis, che ci vorrebbero. E tornando dal giardino pubblico s’empiono le tasche di borraccina e di ghiaia. Il Presepio è il primo tema di composizione poetica, il primo soggetto di invenzione lirica, il primo paragrafo della tradizione, che il ragazzo si trova sottomano; e che sente bisogno di interpretare, spendendo le sue poche lire, e con l’aiuto di alcuni amminnicoli e d’un po’ d’ovatta. Non soltanto è la più lieta divozione cristiana, ma una famigliare celebrazione delle origini dell’arte. Rammentiamoci la Istituzione del Presepio, dipinta in Assisi: la nostra prima ars poetica, la insuperata lezione sull’essenziale nell’arte. 

 San Francesco, genuflesso, mette intorno al Bambino soltanto il bue e l’asinello: la Natura che saluta la Redenzione. Sui muri più illustri, ci avevano dipinto queste istruzioni. E la gente italiana preferiva la convenzione di un albero, che nel nostro paesaggio non esiste nemmeno: un albero da appenderci le salsicce, un albero dove s’annidano gnomi; il simbolo irsuto di una natura straniera e stregata» (XIX – Istituzione del Presepio). I cinquantenari e i centenari, direbbe Cecchi, servono anch’essi a qualche cosa.

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