giovedì 18 dicembre 2014
​​Il dramma di tante comunità cristiane in quest'area del Pianeta riporta in luce la loro storia spirituale legata al monachesimo che le ha tenute unite. Parlo lo storico Fealto.
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«L’ecumenismo? Ben più della teologia ha bisogno della storia. Perché se c’è una strada per superare le ferite del passato è la comprensione delle paure dell’altro». Ascolti queste parole e capisci subito che le quasi mille pagine che hai davanti sono qualcosa più di un semplice libro. Si intitola  Cristiani entro e oltre gli imperi il volume in cui don Giorgio Fedalto – a lungo docente di storia del cristianesimo, con incarico di storia bizantina, all’Università di Padova – ha raccolto per l’editrice Mazziana i saggi scritti nell’arco di ormai cinquant’anni su terre e Chiese d’Oriente. Escono ora in una rassegna ordinata, patriarcato per patriarcato, come una sorta di guida a un mosaico ancora ampiamente da scoprire. «Provengo dall’area veneziana – racconta Fedalto – dove ha lasciato dei segni un patriarca come Angelo Roncalli che aveva avuto esperienza diretta dell’Oriente. Dire Venezia è però già affermare queste inclinazioni. Da secoli qui esiste una comunità greca con istituzioni culturali diverse, per cui è stato possibile maturare interessi storici e scientifici». A Roma – con il Concilio Vaticano II – Roncalli aprì ulteriormente la strada alla conoscenza del cristianesimo d’Oriente. Ma dopo il tempo dell’entusiasmo quest’interesse non si è oggi un po’ raffreddato? «Non bisogna essere pessimisti. È come in una famiglia: si dicono tante parole e qualche volta viene il dubbio che i figli non le ascoltino. Poi però, nel momento in cui quelle parole diventano qualcosa di significativo per la loro vita, se ne ricordano. È quanto sta accadendo oggi rispetto alle Chiese d’Oriente. È arrivata la globalizzazione a portarci in contatto molto più stretto con quelle problematiche. Il dramma stesso che le comunità del Medio Oriente oggi stanno vivendo ci sta facendo riscoprire molti aspetti della loro storia: la loro spiritualità, l’esperienza del monachesimo che le ha tenute insieme per secoli, le loro liturgie». A volte – però – in Occidente si ha l’impressione di una cristallizzazione di queste tradizioni che tende a sfociare nell’immobilismo. È un pregiudizio? «Noi in Occidente abbiamo avuto l’opportunità di avere un Carlo Magno che ha aiutato a costruire un’unità politica e culturale (compreso l’uso della lingua latina). Fuori da quell’area, ciò non è stato possibile: nelle Chiese d’Oriente si parlavano almeno una decina di lingue diverse e già questo ha costituito un ostacolo non da poco. E poi – non essendoci una guida unica come per noi cattolici – la frammentazione dei cristiani è più accentuata, anche in ragione di tante loro vicende politiche, compresa la presenza dell’islam. Tutto questo ha comportato grandi difficoltà». Nell’ultima parte del libro lei raccoglie una serie di contributi dedicati al tema del cammino verso l’unità dei cristiani. Da dove ripartire? «Avanzo una serie di proposte, con piccoli passi che sarebbero comunque significativi. Uno dei primi è certamente la questione di un’intesa per la celebrazione della Pasqua in una data comune. Come sappiamo – infatti – le Chiese d’Oriente non hanno accettato la riforma gregoriana del calendario e continuano a celebrare la Pasqua secondo la data del calendario giuliano. Anche in questo caso, però, è importante ricostruire bene la storia, perché già a quel tempo c’erano voci del mondo greco disponibili a trovare un accordo. A loro volta i turchi temevano che tale innovazione, in popolazioni a loro sottomesse, avrebbe avuto conseguenze anche politiche. Un altro grosso nodo è la questione delle nomine vescovili. Ma se – partendo dalla storia – Roma potesse lasciare loro libertà di scelta valorizzando la loro tradizione, si potrebbero compiere passi significativi. Ci sono poi il discorso sui concili e le altre proposte indicate. Non dimentichiamo che se oggi il patriarcato di Costantinopoli è in forte contrazione, sono invece in espansione le diocesi ortodosse in Russia, Siberia compresa». La conoscenza della storia, dunque, può aiutarci ancora più della teologia a sanare le ferite? «Sì, pensiamo anche all’accusa di proselitismo che molte volte viene rivolta alla Chiesa latina per il fatto di aver costituito delle gerarchie episcopali in Russia o in altri territori tradizionalmente legati a un altro patriarcato. Però anche i patriarchi di Costantinopoli hanno continuato per secoli a inviare loro vescovi a Kiev. E il patriarca copto di Alessandria lo ha fatto con l’Etiopia fino al secolo scorso. Se incentriamo il confronto solo da un punto di vista teologico può essere riduttivo; è la storia ad aiutare a comprendere le situazioni e le obiezioni dell’altro». Dopo il viaggio di papa Francesco a Istanbul dal patriarca Bartolomeo, che cosa possiamo augurarci? «Che si prosegua nella via dei piccoli passi, tenendo presente il timore tradizionale e costante delle Chiese d’Oriente di ritrovarsi latinizzate. Va compreso anche che un conto sono le posizioni degli esperti, un altro quelle della loro opinione pubblica, in genere molto più tradizionalista e ostile nei confronti di Roma. Sono proprio i cristiani che oggi vivono nella tribolazione in Medio Oriente a dirci che passare oltre le questioni confessionali è possibile. Pensiamo a tanti gesti quotidiani, alla vita delle coppie miste, che celebrano Pasqua in date diverse: dobbiamo ascoltare anche loro. Il resto poi – con pazienza – verrà».
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