sabato 16 gennaio 2016
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Più che di intelligence il difetto è di intelligenza. E di linguaggio, meglio ancora di retorica, disciplina nobile quanto disattesa, le cui sottigliezze non vanno confuse con le scorciatoie del marketing. Una distinzione alla quale tiene molto il filosofo francese Philippe-Joseph Salazar, nato in Marocco nel 1955 e attivissimo in numerose istituzioni universitarie, da Parigi a Città del Capo, dove ricopre appunto la cattedra di Retorica. Il suo ultimo saggio, Parole armate (traduzione di Chiara Lurati e Gioia Sartori, Bompiani, pagine 206, euro 17) arriva in Italia accompagnato da una postfazione scritta subito dopo la strage del Bataclan, che per Salazar costituisce una drammatica conferma della sua tesi: la sfida che il Califfato pone all’Occidente è di natura culturale prima che militare o poliziesca. Riguarda la terribile serietà che le parole possono esprimere e alla quale l’opinione pubblica europea si accontenta di contrapporre uno sdegno e un’ironia tanto convenzionali quanto inefficaci.  «Il problema – spiega il filosofo – è che i proclami di al-Bagdhadi restituiscono cittadinanza a tutta una serie di concetti dei quali la politica occidentale riteneva di essersi ormai sbarazzata. Pensiamo alla nozione di sacrificio, pressoché improponibile nel contesto sociale dei nostri Paesi e centrale, al contrario, nella rappresentazione che il Califfato fa di sé. In Francia come altrove, dare la propria vita per una causa superiore è considerato una follia, un comportamento incomprensibile alla stregua del digiuno o di qualsiasi altra rinuncia. Sono le stesse argomentazioni che in passato erano rivolte al cattolicesimo e sulle quali i cattolici di oggi dovrebbero soffermarsi con particolare attenzione». Perché proprio i cattolici? «Le faccio un esempio: applicando il metro di giudizio attuale, gli zuavi che durante il Risorgimento partirono dalla Francia in difesa dello stato Pontificio sarebbero da considerare “cattolici radicalizzati”. Ovviamente, però, non è così che li definiscono i libri di storia. E questo perché fino a non molto tempo fa i valori di fedeltà e abnegazione ai quali il Califfato fa appello appartenevano anche all’orizzonte politico occidentale. Quello che rifiutiamo veramente, quando rifiutiamo la propaganda dello stato islamico, è la possibilità che esista qualcosa di così importante da esigere il sacrificio della vita. Ci illudiamo che basti negare ai combattenti del Califfo la qualifica di “soldati”, sostituendola con quella di jihadisti o simili, per allontanare da noi lo spettro della guerra. Ma la realtà è molto diversa». Sta dicendo che la guerra è già cominciata? «Il discrimine sta nella dimensione territoriale del Califfato, poco avvertita dai media europei se non in chiave allarmistica. Questo è, invece, il salto di qualità decisivo compiuto dall’islamismo nel passaggio da al-Qaeda a oggi. E, di nuovo, non è solo una questione di occupazione militare. A breve e medio termine, infatti, l’obiettivo di al-Baghdadi sembra coincidere con la riconquista dei territori già appartenenti all’islam in passato: dalla Francia ai Balcani, per intenderci, passando per il Maghreb e per quei Paesi, come l’Arabia Saudita, che il Califfo non considera veramente musulmani. Questo per l’immediato. In prospettiva, però, il disegno è molto più vasto. Universale, per essere esatti. Nella visione califfale non esiste sulla terra una nazione che non sia destinata a sottomettersi. Anche i cristiani, da ultimo, dovranno convertirsi all’islam. Per questo, nel momento in cui colpisce Parigi o un’altra capitale europea, lo stato islamico sta compiendo una rivendicazione territoriale, perché la Francia, al pari di ogni altra nazione, appartiene già al Califfo». Sì, ma questa è una designazione simbolica.  «Che giustifica il ricorso alla guerra, esattamente come tante altre volte è accaduto nel corso della storia. Non sto dicendo che si tratti di una pretesa giusta, sia chiaro. Ma non riusciremo a contrastare l’islamismo fino a quando non ne comprenderemo la logica. Per fare questo, dobbiamo ammettere che il Califfato si muove sulla base di premesse non differenti da quelle da cui sono nate molte nazioni moderne. Premesse che, oltretutto, sono sostenute da procedimenti retorici straordinariamente sofisticati e persuasivi». Immigrati e profughi fanno parte di questo processo? «L’immigrazione non corrisponde ai piani del Califfato, che si pone semmai come luogo verso il quale emigrare. In questo momento tutti i veri credenti sono chiamati a raccolta nello stato islamico. Un appello che riguarda anche le donne, alle quali viene restituita una dignità addirittura sacrale. Se per esempio un bambino muore durante il viaggio verso il Califfato, la madre può rallegrarsi per lui, perché è stato comunque ricondotto alla terra santa». E a questo come si risponde? «Senz’altro non con l’utopia della piena laicità sul quale è stato edificato il mito della République. Fino a poco tempo fa si pensava che, trasferendosi in Europa, i musulmani avrebbero finito per secolarizzarsi esattamente come prima di loro avevano fatto i cristiani. Non è andata così. Al di là dei casi di radicalizzazione, oggi in Francia il numero dei musulmani osservanti è in crescita costante. Anche le conversioni all’islam sono in aumento e questo, lo ripeto, è un dato sul quale la Chiesa cattolica dovrebbe interrogarsi profondamente. In questione c’è il ruolo che la religione può assumere nello spazio pubblico, un ruolo che le nostre società hanno tentato troppo a lungo di cancellare e che adesso rischia di essere definitivamente sequestrato dall’avanzata del Califfato».
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