martedì 15 aprile 2014
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​È sempre difficile navigare di bolina, procedere a vela contro vento. E il vento che soffia negli ultimi anni sull’economia politica è quello dell’austerity. Per far fronte alla crisi del debito, ad esempio, in Europa l’unica risposta ammessa è stata quella di aggredire direttamente il disavanzo del settore pubblico, tagliando la spesa e aumentando il gettito fiscale. Un colpo di scure sui redditi dei cittadini. Secondo Andrea Terzi – docente di Economia al Franklin College Switzerland e all’Università Cattolica del Sacro Cuore – la ricetta non funziona. Anzi: la cura dell’austerità inasprisce ancor di più la malattia. Sembra essersene accorto persino il Fondo monetario internazionale che ha ammesso di aver sottostimato gli effetti recessivi dello stringere la cinghia.L’idea di fondo, il vento culturale, è la supposizione che la spesa degli Stati europei (fra questi l’Italia) sia diventata eccessiva rispetto a ciò che ciascun Paese può permettersi. Una tesi che ha trovato quasi un assioma nel “pareggio di bilancio”. E che ribalta le teorie keynesiane secondo cui una contrazione della spesa pubblica e un aumento delle tasse hanno la brutta abitudine di deprimere i redditi, il Pil e i posti di lavoro. Rivelandosi però, a conti fatti, la politica economica meno indicata in tempi di recessione. Terzi naviga dunque controvento riproponendo il nucleo centrale del pensiero keynesiano: i vincoli finanziari scanditi da cattive politiche sono in grado di impedire a una nazione di esprimere tutto il proprio potenziale di risorse umane e materiali. Accade anche all’Italia. Non c’è solo lo skipper John Maynard Keynes a bordo con Terzi nel suo Salviamo l’Europa dall’austerità (Vita e Pensiero, pagine 104, euro 10: il volume viene presentato domani alle 17 a Milano, presso al Libreria Vita e Pensiero di largo Gemelli 1). Ad armeggiare le vele anti-austerity, in passato, ci hanno pensato un premio Nobel come Abba Lerner o economisti alla Michal Kalecki, sostenitore della maggior efficacia della politica fiscale rispetto alla politica monetaria e della centralità della lotta alla disoccupazione . Terzi annovera fra i marinai anche Nicholas Kaldor, per il quale era infondata la tesi monetarista secondo cui una politica della domanda che fa cresce l’occupazione è sempre inflazionistica, e Waren Mosler, economista non accademico che, da ex “lupo di Wall Street”, rivalutò i modelli di gestione della politica fiscale. Una delle conclusioni, apparentemente paradossale, della rotta tracciata da questi economisti e seguita da Terzi è che il debito pubblico complessivo dell’Europa non sarebbe affatto too big, troppo grande. Al contrario: è troppo piccolo rispetto alla domanda di denaro del settore privato. Ma partiamo dall’inizio.Qual è, professor Terzi, l’humus culturale che ha portato a scegliere, prima nella teoria economica e poi nell’intervento politico, la disciplina fiscale e l’austerità quali risposte europee alla crisi del debito?«Un malinteso senso di responsabilità con esiti diametralmente opposti alle buone intenzioni che lo ispirano. Negli anni ’50 Eisenhower si preoccupava del debito nazionale americano perché lo avrebbero dovuto pagare “i nostri nipoti”. Ma quei nipoti crebbero nel periodo di maggiore prosperità del XX secolo, grazie ad una politica che, a differenza di Eisenhower, vedeva nel debito pubblico uno “strumento” e non un “fine”. Da noi, invece, la condivisione dell’euro tra Paesi politicamente indipendenti e culturalmente diffidenti si è affidata alle regole sul debito come garanzia di stabilità. Quelle regole hanno invece destabilizzato l’Europa».Quali sono le principali obiezioni alla ricetta keynesiana di far leva sul deficit, aumentando quindi il debito pubblico, per contrastare la recessione?«Si obietta che la crescita sarebbe effimera e che, se sale il debito pubblico, cala la fiducia. E poi c’è l’argomento della svalutazione interna: stringere la cinghia significa accontentarsi di retribuzioni più modeste, ma anche riuscire a esportare più».Perché austerità e svalutazione interna non funzionano secondo lei in una congiuntura recessiva?«Attenzione: in particolari condizioni possono anche funzionare. Se un Paese può contare su una robusta domanda estera e un cambio stabile, la compressione del disavanzo pubblico e dei redditi può tenere alta la produzione di beni per l’export. È quel che è riuscito alla Germania. Ma solo grazie al fatto che il cambio col Sud Europa era fissato dall’euro e il disavanzo pubblico del Sud alimentava l’acquisto di merci tedesche. Il “modello tedesco” ha quindi funzionato solo perché gli altri Paesi non lo seguivano. Con l’austerità, tuttavia, le esportazioni tedesche si sono spostate sul mercato extra-europeo. E il valore elevato dell’euro sul mercato del cambi è ora un problema anche per la Germania».Il pareggio di bilancio, nella teoria economica dominante, è considerato una pre-condizione per il rilancio dell’occupazione e per la crescita: è sempre vero?«Nel libro l’ho chiamato il “principio della porta girevole”. Il denaro speso dallo Stato è il denaro che entra in circolazione. Il denaro che invece paghiamo in tasse è il denaro che scompare dalla circolazione. Il settore pubblico ha la responsabilità di alimentare l’economia con la giusta quantità di denaro in grado di dare un lavoro a tutti coloro che aspirano ad averlo. Fissare un criterio diverso da questo è stravagante. E irresponsabile». Come rispondere a chi obietta che il debito italiano diventerebbe comunque insostenibile e i “mercati” lo punirebbero portando il Paese al default?«Il debito italiano era già praticamente insostenibile nel 1999. Ora, dopo gli interventi e gli annunci di Draghi, è in qualche modo garantito dalla Bce. E non credo che se l’Italia sforasse appena il tetto consentito i mercati se la prenderebbero troppo». Potremmo allora “sforare” quel benedetto tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil?«A che servirebbe? Una parte della spesa se ne andrebbe a creare posti di lavoro all’estero, il nostro Paese tornerebbe ad essere “osservato speciale” e al parziale sollievo farebbe seguito un’altra ondata di austerità. Questa sì che sarebbe una crescita effimera».L’uscita dall’euro sarebbe una soluzione?«Guardi, alcuni colleghi che stimo sostengono che non sarebbe poi così drammatica per un Paese come l’Italia. Da un punto di vista strettamente economico hanno ragione, ma solo se la politica economica cambiasse di 180 gradi. Vedo molti politici che chiamano l’uscita dall’euro, ma pochi (o nessuno) con le idee chiare su cosa fare la mattina dopo. Sarebbe anche indispensabile che la nuova “lira” si sganciasse da qualunque accordo di cambio, cosa mai successa nella storia recente della lira. L’altra mia obiezione è storica e culturale: i nostri figli più audaci e innovatori si sentono prima di tutto europei. Chi glielo spiega che a causa di un fallimento della politica europea la prossima volta che andranno a Parigi o Berlino dovranno andare all’ufficio cambi?»Quali sono le vie alternative all’austerità e quali le obiezioni che vengono mosse?«L’ex membro italiano del board Bce, l’economista Lorenzo Bini Smaghi, dice che l’alternativa all’austerità è fare le riforme strutturali per aumentare il potenziale di crescita del Paese. Siccome per lui stimolare la domanda è un tabù, auspica che cresca la produttività. Ma la causa di nove milioni di disoccupati in più nell’Eurozona non è un calo del potenziale di crescita. È che alle aziende mancano ordini e fatturato!»La sua proposta è invece quella di creare una sorta di “Tesoro europeo”: perché risulterebbe più praticabile?«In sintesi si tratta di creare un “disavanzo pubblico europeo” mirato alla piena occupazione. Risolverebbe molti problemi: dal rispetto dei vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario. Prima di gettarsi nell’ignoto delle conseguenze di un trauma politico in Europa a seguito dell’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro, è semplicemente imperativo studiare una soluzione condivisa. L’Europa ci deve credere».
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