venerdì 24 ottobre 2014
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A lungo ha regnato l’incertezza e la confusione su Bramantino, al secolo Bartolomeo Suardi, e una parte di questa nebulosa è anche da addebitare al solito Vasari, che nelle Vite arriva a sovrapporre il marchigiano Bramante (che lavorò a Milano) con l’artista lombardo, mentre tra i due c’è una generazione di distacco. Suardi elaborò certamente in ambito lombardo il classicismo monumentale e “romano” delle architetture di Bramante. Ma la sua cifra stilistica è ben più saturnina e misteriosa. Il caso di Bramantino è complesso perché, come spiega Mauro Natale – curatore della straordinaria mostra ora allestita al Museo Cantonale di Lugano, due anni dopo l’eruditissima ricognizione compiuta da Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi sulle opere milanesi esposte al Castello Sforzesco (fra cui i grandi arazzi Trivulzio dedicati ai mesi) – la storia critica di questo pittore è anzitutto “moderna”, fondata sulle ricostruzioni documentarie iniziate nel XVIII secolo e intensificate nell’Ottocento e nel Novecento da Charles Eastlake e Otto Mündler, e soprattutto dallo studioso austriaco William Suida, senza dimenticare le intuizioni di Roberto Longhi, fino all’alacre attività d’archivio di vari studiosi con scoperte, anche recentissime, di documenti che hanno indotto nuove attribuzioni e la ridefinizione della cronologia. Tanto che Natale, nel catalogo (Skira), confessa che la mostra, in fieri già da quattro anni, ha dovuto tener conto di questo profondo cambio delle carte in tavola e quindi riformulare la cronologia delle opere esposte.  Per lo storico la rilettura di Bramantino, della sua genealogia artistica, è in qualche modo legata anche alla ricostruzione delle linee evolutive della riscoperta critica della scuola lombarda dal Settecento in poi, in molti aspetti ancora da chiarire. Per quanto riguarda Bramantino, sul piano documentario esiste, per esempio, un vuoto di circa sette anni, dal 1480 al 1487. Sono anni importanti, di formazione, e Natale immagina la presenza del Suardi in una bottega fiorentina, ma, aggiunge, bisognerebbe averne almeno riscontri stilistici, che invece portano verso l’area padana. Butinone, per esempio, e poi, il milieu ferrarese-bolognese, Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti, e, chissà, forse lo stesso Cosme Tura. A questa atmosfera straniata e arcaica, ancor più che alla tavola del Butinone con la Madonna col Bambino in trono,  sembra legarsi la Madonna allattante di Boston. La dura, arcigna e spinosa scuola ferrarese può aver avuto influenza sull’impressionante Cristo risorto di Madrid, che è stato spesso posto a confronto col Cristo alla colonna di Bramante. Due opere, va detto, di diversissima cifra formale: levigato, monumentale ed eroico (quasi palestrato) quello di Bramante; arcano e persino sciamanico quello di Bramantino. E qui s’introduce una notazione a margine. Come talvolta accade quando qualcuno ti mette una pulce nell’orecchio, i pensieri, governati dall’occhio, cercano riscontri a una nuova ipotesi. La novità non riguarda, immediatamente, Bramantino, ma un suo illustre contemporaneo: Michelangelo. È una scoperta dello storico dell’arte Marco Bussagli, che la documenta in un libro di cui anche questo giornale ha parlato (il 12 ottobre scorso), dove si mette in luce in alcune figure del genio toscano (diverse nel Giudizio Universale),  una strana anomalia: il mesiodens, ovvero un incisivo supplementare che si aggiunge ai quattro superiori diventando quello mediano. L’hyperdontia era ben conosciuta all’epoca di Michelangelo, nella quale anche Bramantino vive e opera. Guardando bene si vedrà che il Cristo risorto di Madrid ha il mesiodens. Per i dettagli simbolici rimando al libro di Bussagli (I denti di Michelangelo. Un caso iconografico), ma è importante notare, per dare ragione del discorso su Bramantino, che il mesiodens è presente anche nel Cristo della Pietà di San Pietro. Il quinto incisivo, per dirla in soldoni, era – come spiega Bussagli – il simbolo che indicava le figure «senza grazia» di Dio, cioè in condizione di peccato. Anche Cristo? Sì, se si parla del Cristo morto, dunque il Cristo che porta su di sé i peccati dell’umanità e conosce per tre giorni la condizione degli inferi.  Quel dente anomalo figurava già – come nota Bussagli – nei demoni negli affreschi del Cappellone degli Spagnoli a Santa Maria Novella. E poiché il Cristo di Bramantino viene datato al 1490, quel simbolo dunque risulta utilizzato con qualche anno d’anticipo sullo stesso Michelangelo, da parte di un artista del suo tempo. Che possa essere questo il “dettaglio” marginale, semplice indizio, che può aggiungersi all’ipotesi fiorentina per Bramantino, dato che proprio in quella città si svilupparono le riflessioni teologiche che confortano la tesi del mesiodens?  Certo, questo particolare, che si vede chiaramente nella bocca del Cristo di Bramantino, ne illumina in modo diverso il tema: il corpo del Cristo, dall’impressionante volto scavato e ossuto, è avvolto in una luce lunare, che sfuma dal grigio cenere all’avorio; le pieghe del lenzuolo hanno una rigidità quasi minerale; lo sfondo architettonico evoca più un luogo spettrale che un edificio. Il che può far pensare che la scena rappresenti Cristo appena tornato alla vita, dunque ancora dentro la caverna del sepolcro, ovvero che la resurrezione sia avvenuta in quell’istante o poco prima. Questo “parto” alla nuova vita mantiene sul corpo e sul volto del Cristo tutta la sofferenza che ha dovuto patire per vincere nella morte, il lenzuolo non è ancora ripiegato e la tomba non è ancora vuota. Cristo, insomma, deve ancora uscire dalla “caverna” dove ha scontato i peccati dell’umanità, e venire in piena luce (in alto si vede la luna con gran parte della faccia in ombra).  Come scrive Mauro Natale nella scheda del dipinto, l’immagine fonde in sé l’iconografia dell’Imago pietatis e quella del Cristo risorto, e questa ambiguità, conclude lo storico, spiega perché lungo i secoli l’opera sia stata definita variamente come “Ecce Homo”, “Cristo in pietà”, “Cristo di dolori”, “Cristo piagato”. È certamente un Cristo risorto – gli occhi sono aperti e fin dall’antichità questo era simbolo dell’essere in vita (anche se in alcune mitologie, come notò Waldemar Deonna in un saggio sul simbolismo dell’occhio, si riaprivano gli occhi ai cadaveri perché, durante il viaggio nella morte, potessero guardare il cielo e sperare nella vita eterna). Cristo, dunque, si mostra a noi nella condizione che precede l’uscita dal sepolcro, quando incontrerà la Maddalena e le intimerà: “noli me tangere”. La trasformazione del Risorto non è ancora del tutto compiuta e di questo – vien da osservare – è spia il mesiodens al centro della bocca.  Sempre Natale scrive che difficilmente si vedrà nel Rinascimento un artista capace di cambiar pelle come Bramantino che da dipinti giovanili come l’Adorazione del Bambino e  la Madonna allattante, finisce poi per dipingere le misteriose architetture antropologiche che vediamo nel Compianto di Bucarest, nella Madonna in trono degli Uffizi, nel Compianto  di Mezzana, nella Sacra Famiglia di Brera, e, retrocedendo, nell’Adorazione dei Magi di Londra, quadro, questo, che per alcune cose ricorda Piero della Francesca (il rapporto prospettico tra figure e spazio per esempio), ma con una qualità umbratile che è propriamente lombarda. Queste assonanze con Piero, però, spingono a guardare ancora in direzione di Firenze.
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