giovedì 21 gennaio 2016
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«L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita». Queste parole di Henry Miller sono state un faro per Floriano Bodini (Gemonio, 8 gennaio 1933 - Milano 2 luglio 2005) tra i grandi, e purtroppo dimenticati, della scultura del Novecento. Nel decennale della morte, Lucca gli dedica una grande mostra (nata da un’idea di Peppino Gatti e curata da Nicola Loi e Maria Stuarda Varetti al Palazzo delle esposizioni della Fondazione Banca del Monte, dal 24 gennaio al 6 marzo). Bodini è ricordato come lo scultore di Paolo VI. Ma la sua grande forza, il genio e la maestria si manifestano fin dall’inizio nei ritratti. Sapeva cogliere nei volti tutta la bellezza e il dramma dell’umano, l’intima tensione del nostro essere tra terra e infinito. Era un grande indagatore, nel modellare svelava i segreti di chi gli stava di fronte e impastava terracotta e bronzo con la profonda tenerezza di cui era capace. Dal neoromanico al realismo esistenziale al monumentalismo barocco, il succedersi di periodi e di stili trovano il motivo unificante nello sguardo del maestro che sa dare espressione alle infinite tonalità del nostro esistere. A partire dalle prime opere che sono un canto di dolore: la solitudine piena d’attesa della Ragazza madre del ’57 e le membra ritorte, dilaniate dall’ultimo urlo inascoltato del ciclo del Crocefisso; la violenza subita nel Lamento sull’ucciso (’61) e la violenza delle armi in La guerra (’63); l’aldilà irrimediabilmente perduto nelle Reliquie, supine mummie schiacciate da una morte senza più speranza e contornate da figure di vescovi. Annotava Edvard Munch, autore de L’urlo – icona della tragicità del moderno e della sua immane capacità di distruzione –: «Non si possono dipingere eternamente donne che cuociono e uomini che leggono; voglio rappresentare degli esseri che respirano, sentono, amano, soffrono. Lo spettatore deve prendere coscienza di ciò che vi è di sacro in loro, così da scoprirsi il capo davanti ad essi come in chiesa».  È la coscienza del sacro che è in noi a indirizzare Bodini verso una fase artistica dove la scultura diventa sempre più simbolica e poetica, alimentata da una speranza scolpita nella pietra e nel bronzo. È un sacro incarnato, è un sacro che si fa carico di tutte le debolezze, i limiti e le contraddizioni dell’umano. La sua attenzione si rivolge, più che all’iconografia del santo, a quella del profeta quali sono Paolo VI e il cardinal Ferrari; quindi alla divinità filiale di Cristo e alla maternità divina di Maria. La speranza è un fatto così reale da essere più forte del dolore: solo così le sue Colombeprendono il volo. Le ali della poesia abbracciano la realtà in una ricerca di simboli capace di coglierne la bellezza nascosta.  «Cercavo uno sguardo nuovo e sereno – diceva Bodini – che mi permettesse di offrire una lettura simbolica della realtà, sì drammatica ma senza cadere nel compiamia cimento del male. L’opera che segna la svolta in questa ricerca è quella della Bambina, la colomba e il giocattolo rotto: un atto d’amore verso mia figlia Paola, verso chi guarda la scultura, ma anche verso me stesso. Tutta la mia scultura è legata alla mia realtà, alla vita, alla quotidianità. Una ricerca avviata negli anni Cinquanta grazie all’incontro con Giuseppe Guerreschi e il gruppo del Realismo esistenziale. Quand’ero giovane avevo un motto: “Se non c’è Storia non mi interessa”».  Bodini ha dedicato gran parte della sua vita a insegnare scultura. «Prima al liceo artistico, poi a Brera tecnica del marmo, ma le dimensioni dei pezzi non superavano quelle di una piastrella da cucina. Allora mi sono trasferito a Carrara, dove esisteva la vera realtà del marmo: lì ho insegnato per anni scultura all’Accademia, che ho poi diretto. Quindi, fino al 1998, l’insegnamento al politecnico di Darmstadt». Fondamentale nel suo percorso artistico è una scultura del 1968: il Ritratto di un Papa, dedicato a Paolo VI, la grande opera in legno di cirmolo dei Musei Vaticani. Nel febbraio del 2003, mentre stava lavorando al busto del pontefice per l’Aula Nervi, mi diceva: «Ricordo il primo incontro con il cardinale Montini a Milano.  Gli donai il disegno del Cristo deriso, lui mi ringraziò e disse cordiale: “Ma tra la folla vedo personaggi vestiti da vescovi”. Con il Ritratto di un Papasento di aver espresso un atto di fede autentico e insieme di piena libertà. Mi colpiva la sua figura, il suo sguardo, quegli occhi vivi e pieni di significato. La sua apertura verso l’arte è stata di straordinaria importanza. Senza incontrarlo molto l’ho sentito molto: ho cercato di far mio il suo insegnamento. Gli ho creduto perché rispondeva alle domande profonde. Porto nel cuore il suo discorso agli artisti». Un atto di fede e libertà è stata anche la realizzazione della Porta Santa di San Giovanni in Laterano per il Giubileo del Duemila, opera che ha coinciso con il primo manifestarsi della malattia. «La Vergine è meravigliata per il destino di questo bimbo che sembra sfuggirle per abbracciare la croce. Eppure rispetta la volontà del Figlio e a quella volontà aderisce pienamente. In questo caso il mio atto di fede è stato recepito anche dalla gente comune. Il giorno dell’inaugurazione non sono neppure riuscito a raggiungere la Porta tanto era serrata la calca della gente che voleva toccare e baciare il Bambino e la Vergine. Figure oggi in parte lucide proprio in virtù della devozione che smuovono. Una reazione un po’ diversa provocano le pecore ai piedi del Paolo VI del Sacro Monte di Varese: vengono cavalcate dai bambini e mi piace pensare che un monumento possa essere occasione di gioco e allegria». Ricorda il fotografo Pepi Merisio: «Erano mie le immagini della prima monografia a lui dedicata. Era il 1964 e si intitolava semplicemente Bodini. Da allora non ho mai smesso di frequentarlo. Grazie a lui ho imparato a demitizzare l’arte. Ho scoperto che il grande artista lavora e lavora tanto. L’ispirazione nasce da dentro, ma, come diceva Chesterton, il temperamento artistico è solo dei dilettanti».
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