martedì 24 maggio 2016
Bismarck e l'inquieta Germania
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Si può dire che il filo rosso, che organizza il saggio di Gian Enrico Rusconi, Egemonia Vulnerabile. La Germania e la sindrome di Bismarck (Il Mulino, pagine 171, euro 14,00), sia rappresentato dalla constatazione, apparentemente paradossale, che Bismarck, il cancelliere di ferro, che resse dal 1862 al 1890 il destino della Germania, sia stato un «rivoluzionario bianco» secondo la definizione dello storico Lothar Gall, ripresa da Henry Kissinger. Ma già nell’Ottocento il frastornante carattere della politica bismarckiana era stato notato da Disraeli, il premier di Sua Maestà britannica, che parlava a proposito della fondazione del Secondo Reich, voluto dal Cancelliere, come della «rivoluzione tedesca». E di prove “rivoluzionarie” Bismarck ne aveva già varie al suo attivo, come l’introduzione del suffragio universale maschile, che stupì sia i conservatori, fieramente contrari, sia i liberali, che temevano, a ragione, che l’estensione del diritto di voto li avrebbe marginalizzati, come in parte avvenne. È che Bismarck s’inventa una nuova modalità di fare politica al di là delle ideologie, sia reazionarie – come quella che aveva ispirato la Santa Alleanza – che liberali o socialiste. Si è parlato di cesarismo, di bonapartismo, ma il Cancelliere non agiva – come Napoleone III – per sé, bensì per la Prussia e per la dinastia, cui restò sempre fedele. Dal 1871, con la sconfitta della Francia e con la annessione dell’Alsazia e Lorena (il suo tragico errore), Bismarck estese la sua missione al servizio della Germania, ormai assurta a grande potenza, ma, come gli storici hanno osservato, «troppo grande per il bilanciamento delle potenze, troppo piccola per l’egemonia » e a questo proposito lo storico Ludwig Dehio aveva coniato il concetto di «semiegemonia». Ecco il destino della Germania da sempre inquieta, minacciosa e minacciata e quindi temuta e non amata, prima con Bismarck per la sua potenza militare (che il cancelliere perseguiva, ma teneva a freno, evitando la folle corsa agli armamenti navali che contribuirono alla rottura fatale e insensata con l’Inghilterra) e ora per la supremazia geoeconomica, che tanto impensierisce l’Europa mediterranea. Che avesse ragione Metternich con la sua Europa fondata su una Confederazione Tedesca, dominata dalla Prussia, ma presieduta dall’Austria, che smussava ogni tentazione egemonica? La storia ha preso un altro verso. Certo è che dopo le due disfatte epocali, la Germania – quella di Bonn e ora quella della riunificazione – si è riposizionata, deponendo per sempre l’elmo chiodato, simbolo del militarismo guglielmino, a favore dell’economia, che è spesso pur sempre chiodata. Il discorso di Rusconi procede con un’ardita e fascinosa analogia, con un gioco di rispecchiamenti tra la politica di Bismarck e quella di Angela Merkel. Entrambi straordinari tatticisti post-ideologici. La chiave dell’analogia, trascurata dalla pubblicistica italiana, sta anche nelle comuni radici orientali. Bismarck era uno Junker con cospicui latifondi al di là dell’Elba, mentre il nonno paterno della Merkel con il cognome di Kazmierczak, era un polacco di Poznan, trasferitosi da adulto a Berlino dove assunse il nome di Kasner (Merkel è il nome del primo marito di Angela). Insomma l’attenzione verso l’Oriente e segnatamente verso la Russia è comune ad entrambi, con il riconoscimento – non solo a livello psicologico e culturale – dell’incidenza geopolitica della Russia per la Germania e per l’Europa. Al Cancelliere ciò riuscì, con la sua Realpolitik, che – con il sapiente ricorso alla diplomazia segreta che tanto prediligeva – appariva talvolta funambolica. Ma il difficile equilibrio lo sapeva gestire lui solo e infatti quando fu licenziato dal nuovo Kaiser, Guglielmo II, fu la catastrofe con la fine degli equilibri. L’egemonia di Berlino mostrò, nel girò di poco più di vent’anni, tutta la sua fragilità, conducendo il Reich alla catastrofe e aprendo quella crisi epocale europea che si è temporaneamente conclusa con la caduta del muro di Berlino, quando una costellazione internazionale irripetibile rese possibile la riunificazione sotto Helmut Kohl, l’altro grande cancelliere, anche lui “conservatore rivoluzionario” come Bismarck. L’analogia col passato, che non passa, si è riproposta con la crisi russoucraina quando la Germania si è trovata a solidarizzare con la Nato e l’Ucraina, distanziandosi dalla Russia di Putin, con cui ormai – si pensi alle divergenze di fronte la crisi siriana – si è creata una minacciosa diffidenza reciproca. L’ex cancelliere Gerhard Schröder, che ha sempre coltivato una convinta politica filorussa (tanto da accettare, dopo il cancellierato, un’importante carica da parte del Gazrom, favorendo gli accordi energetici tra i due paesi), ha ripetutamente avvertito che una crisi dei rapporti da parte della Germania con la Russia di Putin potrebbe risultare esiziale per l’intera Europa. Ma la scena è oggi tutta per Angela, denominata la Kaiserin, la Mutti (la mammina), ma anche il «camaleonte politico» per il suo spregiudicato tatticismo ideologico, nonché lo «scorpione» per l’inflessibilità verso i politici che ostacolavano la sua marcia verso il successo, come dimostra la spietatezza verso il suo mentore Kohl nel 1999. Insomma si parla di lei come della “Merkiavelli”, mentre “The Economist”, il 7 novembre 2015, la definisce realisticamente « The indispensable European». E di fronte all’oscurarsi del clima politico ed economico che insidia la supremazia politica tedesca, il “Time” osserva il carattere di egemonia «riluttante» di Berlino. La generosa e orgogliosa affermazione della Merkel a proposito dell’accoglienza di un milione di siriani: «Ce la faremo », all’inizio ha trasmesso fiducia e ottimismo ai tedeschi per trasformarsi, attraverso le continue reiterazioni, in un mantra che rivela per la prima volta la debolezza della cancelliera. La Germania di Bismarck, l’«impero inquieto », continua a essere inquieto e inquietante con la Merkel. La partita della sua vita politica è più aperta che mai. La sua condiscendenza verso i migranti può spiegarsi con il riaffiorare di quelle radici cristiane ereditate dal padre pastore luterano. Oppure è, ancora una volta, una tattica inevitabile di fronte a una crisi epocale, in cui la Merkel ha, abilmente, giocato d’anticipo. Il saggio di Rusconi, che, partendo da una avvincente, quanto indispensabile illustrazione storica, per giungere al presente, si chiude con la problematica costatazione di «un futuro difficile» per la Merkel, per la Germania, per l’Europa, insomma per tutti noi.
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