martedì 17 maggio 2016
Binebine, come si fabbrica il terrorista islamico
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Da fuori non si vede nulla, soltanto un muro decorato a colori sgargianti. Al di là di quella barriera vivono i 300mila di Sidi Moumen, la più estesa tra le molte bidonvilles del Marocco. Da quell’agglomerato di baracche provenivano i quattordici ragazzi che il 16 maggio 2003 si fecero esplodere in diversi punti di Casablanca: hotel, consolati, circoli culturali ebraici, un ristorante kasher. Un concatenarsi di attentati suicidi dal quale furono presi di sorpresa anche gli esperti di terrorismo, che fino a quel momento avevano sottovaluto l’eventualità di un attacco simile in Marocco. «Ma io non sono un esperto – protesta Mahi Binebine, pittore e narratore molto amato in patria e molto conosciuto nel mondo –. È per questo che sono voluto entrare lì dentro. Per cercare di capire come si fabbrica, oggi, un terrorista». Il grande salto (traduzione di Manuela Maddamma, Rizzoli, pp. 160, euro 14) è il risultato di quell’esperienza. Pubblicato nel 2010 e portato al cinema due anni più tardi dal regista marocchino Nabil Ayouch, il libro è stato presentato dall’autore al Salone internazionale del Libro di Torino, che quest’anno aveva messo a tema le contraddizioni e le speranze del mondo arabo. Binebine, è stato facile entrare a Sidi Moumen? «Niente affatto. È una realtà chiusa, del tutto priva di contatti con l’esterno. Chi nasce e cresce lì dentro non si sente neppure marocchino, in realtà, sa di essere un cittadino di seconda categoria, un escluso. Il suo orizzonte è quello della bidonville, uno squallido susseguirsi di casupole costruite con i materiali recuperati dalla discarica a ridosso della quale sorge Sidi Moumen. Se non fossi stato introdotto da un amico giornalista originario dell’insediamento, non sarei riuscito neppure a muovere un passo in mezzo a quelle persone». Che cosa l’ha colpita di più? «La prima immagine che mi si è presentata davanti, quella di un gruppo di ragazzi che giocavano a calcio. Allegri, vitali, del tutto uguali ai loro coetanei che si possono incontrare su un qualsiasi campetto improvvisato, in Marocco o altrove. Anche per questo, nonostante tutto, ho voluto che Il grande salto non fosse un libro triste. Si può essere felici perfino in una bidonville. I fondamentalisti lo sanno e, di conseguenza, fanno di tutto per rompere questo legame». In che senso? «Da musulmano ci tengo a ribadire che il terrorismo non è affatto una conseguenza della religione. Si tratta di una mafia religiosa, semmai, che prende il Corano a pretesto e che adopera le strategie di reclutamento e condizionamento tipiche di ogni altra organizzazione criminale. Appena reclutati, i ragazzi vengono allontanati dal contesto familiare e gratificati con un piccolo lavoro che permette di guadagnare qualcosa. Si dà loro dignità, ma in cambio si pretende gratitudine e, intanto, si iniziano a inoculare le convinzioni di base. Il fanatismo, anzitutto, e poi l’ossessione del complotto internazionale, l’ammirazione per gli altri combattenti. In particolare, i terroristi suicidi palestinesi e ceceni sono fatti oggetto di un vero e proprio culto, i più giovani si consumano nel desiderio di potersi sacrificare nello stesso modo, si entusiasmano quando finalmente vengono scelti per il 'martirio'». È questo il processo di fabbricazione del terrorista? «Sì, ed è spaventosamente semplice. Lo è stato in Marocco, continua a esserlo in altri Paesi arabi, ma la situazione non cambia se pensiamo a quello che accade nelle banlieues europee. Il meccanismo è sempre lo stesso e agisce in luoghi separati dal resto della società, dove vivono persone che non si sentono cittadine del Paese nel quale sono nate o che le ospita. E non hanno tutti i torti, perché in effetti costituiscono un popolo invisibile, di cui nessuno si occupa. Ci si accorge di loro solo quando fanno qualcosa di tremendo e allora li si accusa di essere tutti criminali, tutti mostri». Lei è di un altro parere, mi sembra di capire. «Per scrivere questo libro ho frequentato a lungo Sidi Moumen e alla fine mi sono persuaso che sì, un mostro c’è, ed è l’indifferenza dello Stato, è il cinismo delle istituzioni che non fanno nulla per contrastare questo clima di degrado e di ignoranza. Non c’è polizia nelle bidonvilles, non ci sono presidii sociali o culturali. È come se lo Stato avesse presentato le sue dimissioni ». E la soluzione qual è? «La soluzione non c’è. O, meglio, non c’è un metodo infallibile, che permetta di sbarazzarsi del problema una volta per tutte. Ci sono molte soluzioni sbagliate, in compenso. Illudersi di imporre la democrazia a forza di bombardamenti, per esempio, è il modo migliore per suscitare una nuova generazione di terroristi». Non si può fare nulla, quindi? «Si può fare moltissimo, al contrario. Si può diffondere l’amore per la vita in luoghi come questi, nei quali è fin troppo facile far attecchire l’amore per la morte. Quando ho visitato per la prima volta la baraccopoli, non c’era nulla, eppure c’era l’allegria di quei ragazzi che giocavano a calcio. Mi sono immaginato che la loro squadra avesse un nome, Les étoiles de Sidi Moumen, 'Le stelle di Sidi Moumen', che è anche il titolo originale del romanzo. Bene, oggi Les étoiles de Sidi Moumen esistono davvero». È una squadra di calcio?  «No, è un centro culturale polivalente, con un’attrezzatura modernissima e un grande sala cinematografica. I ragazzi seguono corsi di musica e di danza, imparano le lingue, sono sostenuti dalle donazioni di molti mecenati che si sono lasciati conquistare dal progetto. Fra loro ci sono anche uomini di affari ebrei, ma non è questo il punto. Centri simili stanno sorgendo in altre bidonvilles, qualcosa sta cambiando. Guardi, ho le foto qui sul telefonino, se vuole le faccio vedere qualche video. Ecco, questo è uno spettacolo dei ragazzi e delle ragazze di Sidi Moumen. Lo vede come sono vivi? Lo vede quanto sono belli?».
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