mercoledì 29 ottobre 2014
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Nasceva duecento anni fa l’arcivescovo designato alla sede di Milano nel 1859, proprio alla vigilia dell’annessione al Regno sabaudo. Che pose il veto all’insediamento, aprendo un duro scontro con Pio IX  Esilio ambrosiano. Vittima sacrificale del “laicismo risorgimentale” ma allo stesso tempo arcivescovo “prediletto” di Francesco Giuseppe imperatore d’Austria e di Pio IX per la sua difesa del papato e del primato petrino. È la storia ma anche la cifra biografica di Paolo Angelo Ballerini (1814-1897), patriarca latino di Alessandria d’Egitto: l’arcivescovo “impedito” di Milano che non prese mai possesso della diocesi ambrosiana per il netto rifiuto del Regno di Sardegna, appena insediatosi in Lombardia nel 1859 dopo la Seconda guerra di indipendenza. A duecento anni dalla nascita di monsignor Ballerini, avvenuta il 14 settembre del 1814, la sua figura rappresenta ancora oggi nella storia religiosa ma anche del Risorgimento, come direbbe Alessandro Manzoni ne I Promessi sposi, un «Carneade! Chi era costui?», se si prescinde dal suo ritratto appeso nella quadreria arcivescovile o dal suo nome inserito nell’elenco marmoreo degli arcivescovi collocato nel Duomo di Milano.  Attorno a questa eroica figura, definita dallo stesso suo successore sulla cattedra di Ambrogio, Carlo Maria Martini «persona mite e assai colta, sacerdote esemplare del clero ambrosiano» aleggia una coltre di inspiegabile silenzio (basti pensare che a Ballerini non è nemmeno dedicata una voce nel Dizionario biografico degli italiani) se si esclude la grande devozione che sopravvive in Brianza ricordato ancora oggi come il «nostro patriarca santo» nella città di Seregno, in cui trascorse il suo «episcopato d’esilio» per più di trent’anni (1867-1897). Dal 1995 è stato avviato il processo diocesano per la causa di beatificazione. Ma chi era questo colto prelato, considerato – a ragione o a torto – l’alfiere di un cattolicesimo intransigente sulla scia di De Maistre e Lacordaire prima di essere nominato “frettolosamente” arcivescovo di Milano da Francesco Giuseppe e Pio IX nel giugno del 1859?  Paolo Angelo Ballerini nasce a Milano il 14 settembre del 1814; vestirà l’abito talare nel 1829 per poi intraprendere il tradizionale curriculum di studi in filosofia e teologia presso il seminario arcivescovile di Milano fino alla sua ordinazione presbiterale nel 1837. Fondamentale, proprio in questi anni, sarà il suo soggiorno di studio a Vienna dove perfezionerà il suo apprendimento della teologia e la conoscenza della lingua tedesca. Ma è con il ritorno a Milano che Ballerini mostrerà da subito le sue doti di fine intellettuale: come professore di lingue antiche al seminario di Porta Orientale e di giornalista come collaboratore de L’Amico Cattolico.  Dalle colonne del periodico ambrosiano saluterà con favore i moti del 1848 e delle Cinque Giornate di Milano difendendo le istanze del riscatto italiano dalle «potenze straniere»; ferma, solo pochi mesi dopo, sarà la sua presa di distanza dalla «questione italiana» perché in contrasto con la sua strenua difesa del potere temporale del Papa e l’«integrità della religione».  Ed è proprio nell’arco di questi anni che il giovane Ballerini si guadagnerà la stima dell’arcivescovo di Milano e simbolo del “Risveglio Italiano”: Carlo Bartolomeo Romilli da cui sarà considerato il suo ideale successore in pectore e sarà nominato vicario generale della diocesi. È con la repentina nomina ad arcivescovo di Milano, quando oramai le truppe piemontesi sono alle porte del capoluogo lombardo ed escono vittoriose dalla battaglia di Solferino (1859) che Ballerini diventerà un elemento di divisione per molti milanesi, di scherno (si pensi solo a periodici filo-risorgimentali come La Gazzetta di Milano) e per parte del suo clero più vicino alle istanze unitarie e al pensiero di Antonio Rosmini; sarà lo stesso futuro patriarca latino di Alessandria d’Egitto a togliersi di impaccio e a chiedere la rinuncia al suo incarico alla Santa Sede. E la linea della fermezza di papa Mastai Ferretti a convincerlo ad accettare la nomina arcivescovile preoccupato soprattutto che con la vittoria delle truppe sabaude, come ha evidenziato il più autorevole biografo di Ballerini Carlo Cattaneo, «troppe sedi episcopali sarebbero state vacanti per molti anni». La sua consacrazione ad arcivescovo avverrà nascostamente nella notte tra l’8 e il 9 dicembre del 1860 nella Certosa di Pavia. Da quella data Ballerini guiderà la diocesi ambrosiana per “delega” affidando il governo della sua sede “impedita” ma “non vacante” ai suoi vicari generali: prima Carlo Caccia Dominioni (18601866) e poi Filippo Carcano (1866-1867). Sarà il suo un «episcopato d’esilio» ma improntato soprattutto alla conciliazione con il suo clero e gregge e ad evitare troppi urti e rotture con il governo di Torino.  Il “caso Ballerini” verrà risolto, grazie anche alla lungimirante azione diplomatica di Bettino Ricasoli e di don Giovanni Bosco, solo il 23 giugno del 1867 con la nomina ad arcivescovo di Milano di Luigi Nazari di Calabiana, senatore del Regno d’Italia, già vescovo di Casale Mon-ferrato, molto apprezzato da Casa Savoia e non inviso a Pio IX. Da quella data il prelato di origini milanesi spenderà il resto della sua vita in azioni di carità e di apostolato mettendosi a disposizione del suo successore sulla cattedra di Ambrogio soprattutto per l’amministrazione delle cresime nelle zone più accidentate della vasta diocesi ambrosiana o ricoprendo il delicato ruolo di visitatore apostolico in delicate missioni volute da Leone XIII. Rilevanti saranno i suoi contributi, durante il Concilio Vaticano I (1870), per la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia e per la promozione di un catechismo universale; al patriarca Ballerini si deve anche la pubblicazione in sei volumi (1875-1883) dell’Opera omnia di Sant’Ambrogio.  A duecento anni dalla sua nascita rimangono certamente attuali il suo spessore intellettuale e la sua azione caritativa come raccontano le memorie del suo tempo riguardo la sua «imperturbabilità» di fronte al «Calvario subito» e la cifra di un uomo, come ha ben scritto lo storico gesuita Giacomo Martina capace, sempre di «difendere la libertà della Chiesa contro le reiterate croniche ingerenze governative dei regimi, assoluti o liberali che fossero, pronto per questo ad affrontare sacrifici, e, se necessario, anche l’esilio ». O forse è giusto ricordarlo più semplicemente, ancora oggi, con le parole pronunciate l’11 dicembre del 1960 dall’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI): «Fu apostolo di conciliazione e di pace interna».
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