giovedì 23 aprile 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Ero presente nella basilica di San Pietro a Roma quando papa Francesco ha parlato del genocidio armeno, il primo del XX secolo, aprendo le pagine di una grande ferita del passato ma anche delle ferite del presente. Nessuno dei molti armeni venuti da ogni parte del mondo si aspettava una dichiarazione così risoluta e chiara. Nemmeno io. La commozione è stata grande. Non ci sentiamo più soli. Le parole di papa Francesco mi hanno colpito, e mi ha colpito il tono del suo dire: il coraggio della verità che ridesta le coscienze, il solo capace di prevenire i genocidi. Il mio pensiero è andato ai martiri cristiani, al significato profondo della testimonianza della verità. Come armeno, figlio di una terra che nei secoli ha visto formarsi una cultura alta, sento di essere chiamato a una responsabilità anche maggiore: fare in modo che le celebrazioni del centenario siano occasione per fare sentire la nostra vicinanza e solidarietà ai cristiani perseguitati in tante aree del mondo e a tutte le vittime della violenza che si ripresenta in un crescendo di efferatezze insostenibili. Mio padre non ha mai voluto ritornare nella sua terra natale. Se fosse ancora vivo penso che dopo le parole di papa Francesco potrebbe oggi ritornare in Turchia. Figlio di un sopravvissuto al genocidio armeno, se non avessi elaborato nel corso degli anni una netta distinzione fra governo turco e popolo turco, oggi, di fronte alla reazione della Turchia alle parole di papa Francesco, non potrei scrivere. C’è in tutti noi armeni una storia interiorizzata, itinerari nella memoria del genocidio da cui emergono racconti, testimonianze, ricordi. Hrant Dink, il giornalista turco di origine armena assassinato a Istanbul nel 2007 da un nazionalista, ci ha lasciato un racconto che ci aiuta a capire che cosa noi armeni abbiamo perduto. Nel 1915 in un paese vicino Sivas, arrivato l’ordine di deportazione, un padre mancava all’appello. Richiamato più volte, fu trovato dai figli intento a riparare la trebbiatrice. Non si mosse, non aveva finito il lavoro: «Figli miei, non va bene lasciare la trebbiatrice rotta. Noi partiremo e al nostro posto verrà qualcun altro. Ne avrà bisogno ». Così erano gli armeni ottomani, legati alla loro terra da tremila anni, fedeli sudditi ottomani.  Voglio ricordare anche un altro episodio accaduto a Urfa, l’antica Edessa, la moderna Sanliurfa. Una lunga fila di ragazze armene che si erano rifiutate di convertirsi all’islam attendevano l’esecuzione. Il macellaio con un grembiule di cuoio e un affilato coltello, svolgeva il lavoro che gli era stato ordinato. Le ragazze si presentavano ordinatamente una dopo l’altra, alcune addirittura cantando o scherzando. Il macellaio non riusciva a capire da dove potessero trarre tanto coraggio e, mentre le teste cadevano, il macellaio non poteva più trattenere le lacrime. Il macellaio era un patriota chiamato a edificare la Turchia dei turchi. Obbediva agli ordini del governo e agli ordini dello Sheik ul Islam che aveva decretato la guerra santa, ma era anche un amico degli armeni, con i quali da sempre aveva convissuto. Il fatto che la famiglia di mio padre, rifugiatasi in cantina durante i massacri di Costantinopoli, sia stata salvata da un amico turco mi ha suggerito a suo tempo di dedicarmi alla ricerca dei Giusti. Negli ultimi anni ho raccolto le storie di “Giusti ottomani” che hanno disobbedito agli ordini e non hanno voluto stare dalla parte dei carnefici. Sono i “traditori della patria”. Se l’orgoglio nazionale incentrato sui turchi “patrioti” potesse essere indirizzato verso i “disobbedienti” che non hanno accettato di diventare complici del genocidio, si potrebbe aprire un nuovo percorso per giungere alla verità storica. Dalle storie dei salvatori l’opinione pubblica turca sarebbe spinta a ripercorrere la storia dei salvati e non potrebbe più ignorare gli eventi di inizio secolo. La conoscenza dei fatti, la cultura storica portata nelle scuole, nelle università, nei dibattiti potrebbe aprire una possibilità di dialogo fra i due popoli e l’insistenza sulla memoria del bene potrebbe rendere più fragile la barriera del negazionismo di Stato. Inoltre le comunità armene perseguitate, riconoscendo che il fronte dei carnefici al tempo del genocidio non è stato compatto, dovrebbero concludere che non si deve generalizzare e riferirsi ad un generico “popolo nemico” che si è macchiato del crimine di genocidio. Ci furono anche turchi islamici che hanno seguito la voce della coscienza. I giusti a volte rivelano la loro impotenza totale, che tuttavia si trasforma nella potenza dell’esempio; a volte sembrano sacrificarsi inutilmente, ma il loro sacrificio resta nella vita dei sopravvissuti e il loro esempio può diventare motivo di speranza.  Parlare di turchi buoni dell’epoca del genocidio è difficile. Ma forse lo è meno dopo le parole di papa Francesco.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: