martedì 13 settembre 2011
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La perdita dell’illusione di «cambiare il mondo» e di «cambiare la vita» (Marx e Rimbaud uniti, secondo l’aspirazione del primo surrealismo, delle «avanguardie» artistiche ma anche politiche del primo dopoguerra) ci ha tolto la speranza ma non la carità né il dovere di credere nella possibilità di reagire. Il perno di tutta la concezione capitiniana dell’agire umano, la sua proposta, sta in una dichiarazione di cui abbiamo persino abusato, ma la cui chiarezza e necessità si sono fatte nel tempo sempre più evidenti. «Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti [...]».Per Capitini, religione è «la coscienza appassionata della finitezza e il superamento della finitezza stessa», è «farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare», è il «di più aggiunto alla coscienza e all’operare». Non-accettare la realtà così come ci si presenta vuol dire contribuire alla sua liberazione. È questo il primo passo, il primo gesto. Ed è solo in apparenza qualcosa di facile, perché la realtà ci si impone con un massimo di forza e di violenza, nella manipolazione che ne fanno i poteri – e questo, oggi, forse più che mai, nella capacità di penetrazione che ha dimostrato il modello di gestione delle società basato, almeno qui da noi, sulle possibilità del consumo e sulla pressione ossessiva nella formazione del consenso. È da qui, io credo, che occorre oggi partire, di nuovo e come sempre: dal rifiuto di accettare la realtà come ci dicono sia, un’idea del mondo quale ci viene imposta da chi comanda e presume di dirigere le sorti di tutti, l’uomo e la natura intera, compresi gli elementi.Aldo Capitini dice che «bisogna avere apertura anche verso la storia», che «essa non deve farci paura [perché] la paura impedisce l’ispirazione e fredda l’amore». Ma come intervenire nella storia, da persuasi, da minoranze convinte della possibilità e del dovere di cambiare le regole che si sono imposte, e perlopiù sono state imposte, in una società, nella società umana? Per Capitini la rottura che permette l’intervento affermativo nella storia è la nonviolenza, perché non si può ottenere niente di buono ostinandosi – come diceva parlando dei comunisti – a voler «lavare con l’acqua sporca». Egli diceva che bisogna scrivere nonviolenza senza la lineetta di divisione, per restar fedeli allo spirito affermativo dell’<+corsivo>ahimsa<+tondo> gandhiano, togliendo dalla parola ogni negatività.La nonviolenza rivela il grado di violenza che si annida nel potere. «Il problema non è che nuova gente arrivi, in un modo o in un altro, al potere; ma che il potere sia esercitato in modo nuovo», e anche questa è una proposizione che faceva scandalo, e di cui oggi molti si sono fatti persuasi, nel crollo delle esasperate fiducie del «marxismo» al potere.Nei suoi ultimi anni di vita, un filosofo il cui pensiero ha avuto qualche punto in comune con quello di Capitini, Günther Anders, rinnegò la nonviolenza perché ne vide l’impotenza di fronte alla forza aggressiva e dominante del potere, a Oriente come a Occidente, con il modello consumista e le sue conseguenze, con la costruzione delle atomiche e con la scienza al servizio della politica e la politica al servizio dell’economia. E gli accusò i nonviolenti di fermarsi nella loro azione a inutili happening gratificanti, ad una autoreferenzialità che doveva purtroppo diventare un marchio in altri campi dell’esperienza, giovanile e non solo, dopo il crollo dei movimenti e la vittoria di quella che allora chiamavamo «mutazione»: una falsa coscienza che ha finito per invadere anche il terreno delle cosiddette «buone pratiche», soddisfatte di una loro presunta diversità. In definitiva, ci siamo dati nuovi alibi secondo modi nuovi di non disturbare lo status quo, di «accettare» le regole imposte dai poteri. Dice Capitini in Il problema religioso attuale (1948) che la nonviolenza non è ordine e pace e che bisogna star bene attenti a che non si risolva «in una acquiescenza all’ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata in potere e in privilegi decorati ora di un’apparente legittimità». «Il nonviolento che si fa cortigiano è disgustoso: migliore è allora il tirannicida. [...]. La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata». La nonviolenza deve essere, perciò, «attivissima».
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