domenica 20 aprile 2014
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Passare la Pasqua in Grecia, perché no? Ero al primo an­no di università, ed avevo se­guito lezioni per tutto l’in­verno: archeologia classica, storia greca (il corso mono­grafico era sulla dinastia dei Tolomei in Egitto, che imparai a memoria come una litania, fino all’ultima di loro, Cleopatra), e le divertenti, creative lezioni di archeologia cristiana con l’ineguagliabile Paolo Lino Zovatto, lo scopritore e scavato­re di Concordia Sagittaria. Monsignor Zovatto, che andava sempre di corsa, spazzolando il pavimento della fa­coltà di lettere, il Liviano, con la sua tonaca stazzonata, non usava mai dare meno di ventotto, e così il suo corso era frequenta­tissimo. D’estate, col gran caldo, usava far gli esami in cantina, vicino alla caldaia spen­ta, su un tavolino traballante, e i trenta fioc­cavano... Allora i corsi erano annuali, con u­na bella pausa per Pasqua, sicché fu con grande entusiasmo che mi arruolai con un paio di amiche per il viaggio in Grecia che stava organizzando Franco Luxardo, un po’ più grande di noi, bello, simpatico e sporti­vo. La Grecia di allora, ancora non toccata dal turismo, si offriva ai pochi viaggiatori con quella ineguagliabile forma di ospita­lità mediorientale, la xenía, che avrei impa­rato a conoscere bene negli anni successi­vi, quando andai dai miei parenti in Libano e in Siria.Partimmo da Brindisi su una navicella ma­landata dal pomposo nome di Eikaterini. Altissima di fiancate, oscillava che era una bellezza nel Canale d’Otranto e poi nel tra­gitto verso la Grecia. Nel buio, sentii il fra­gore di ondate violente, che mi spaventa­rono; le cabine erano anguste, le cuccette so­vrapposte piuttosto inospitali e tutti aveva­no mal di mare. Allora mi alzai in fretta: preferivo passare la notte sul ponte, avvilup­pata in una vecchia coperta. «Molta umi­dità, ma niente nausea», proclamai la mat­tina dopo, mangiando una robusta cola­zione, e suscitando l’invidia dei miei com­pagni di stanza, pallidi e verdognoli, che ma­sticavano con fatica un po’ di pane secco.  Il passaggio del Canale di Corinto fu una meraviglia mai più ripetuta. La  Eikaterini ancora ci entrava, quasi sfiorando le erte pa­reti del grande canyon, mentre le grandi na­vi passeggeri di oggi, quegli sgraziati gratta­cieli naviganti, non ce la fanno: sbarcano le masse di gente a Patrasso oppure circum­navigano il Peloponneso. Noi eravamo tut­ti sul ponte, guardando in alto la striscia di azzurro lontana, mentre la nave piano pia­no avanzava. E la mia mente satura di ri­cordi classici pensava agli dei dell’Olimpo, all’acropoli di Corinto, alle sacerdotesse del­la dea che si concedevano nelle stanze se­grete del tempio: celebravano la prostitu­zione sacra, diceva il mio libro di storia con faticoso pudore. Sbucare sull’Egeo dei nostri anni di liceo, da Omero in poi, fra battaglie, triremi, guerre, Grandi Re bellicosi all’attacco e piccole città-Stato altrettanto bellicose in difesa, fu com­movente ma anche – ci parve – un po’ de­ludente; e poi sbarcare al Pireo, in mezzo a un’enorme confusione, fra schiamazzi, gri­da,  gente che ti tirava per il braccio per in­dicarti un albergo vicino, ripetendo come un mantra la frase «taliani greci mia razza mia fazza», ipocrita ricordo della nostra inva­sione della Grecia, fra reni non spezzate e percezione di una comune, patetica mise­ria di fronte alla perfetta macchina da guer­ra tedesca. Ma noi eravamo giovani e decisi a sfruttare l’occasione. Girammo per Atene visitando acropoli e musei, ma soprattutto annusan­do l’aria del paese. Il primo ad essersi scrol­lato di dosso il giogo ottomano, nel lontano 1829: «La battaglia di Navarino, Santorre di Santarosa e prima di tutto Lord Byron, mor­to di febbre nelle paludi di Missolungi», de­clamava invasato il professore di storia, e ci sembrava di vedere l’aristocratico zoppo e malandato, che agonizzava su un giaciglio di fortuna. Molto romantico, molto elegan­te, molto inglese. Ci suggerirono di non mangiare gelati, poteva essere pericoloso, ma era una Pasqua bassa, marzolina, e fa­ceva ancora fresco, sicché ci dedicammo piuttosto ai chioschetti all’aperto che ven­devano cosette fritte e piccoli bocconi di carne su microscopici spiedini, forse – a pensarci oggi – altrettanto pericolosi ma assai gustosi. Di sera erano illuminati da piccole lampade ad acetilene, come lucet­te nel buio. Ma intanto avanzava la Settimana Santa, perché quell’anno la Pasqua cattolica e quel­la ortodossa coincidevano. E il giovedì san­to partimmo su una scassata corriera per il Peloponneso. Scendeva una neve rada, fa­ceva freddo, e il riscaldamento non funzio­nava. Arrivammo gelati in Arcadia, in un paesino dove ci ospitò uno xenodochío tou ipnou ,un tipo di albergo particolare, l’“al­bergo del sonno”, dove si poteva soltanto dormire. Un piccolo lavandino ad ogni pia­no e un gabinetto nel cortile era tutto quel­lo che, oltre al letto, veniva offerto ai vian­danti. Eravamo pazzi di gioia: ci sembrava di e­mulare Lawrence d’Arabia o Savorgnan di Brazzà. Ci piazzammo nel cortile, all’om­bra di un maestoso eucalipto, e ognuno rac­contava una storia. Fu allora che per la pri­ma volta udii me stessa parlare di mio non­no Yerwant e della sua famiglia armena, del­le stragi del 1915, della Piccola Città laggiù in Anatolia, aldilà del mare; e comparvero sua madre Iskuhi dalle gote di pesca, suo fratello Sempad il farmacista decapitato e la bella Shushanig, che portò in salvo i bam­bini. Visitammo Olimpia e il tempio di Vasse, alto e isolato sulla collina. Eravamo soli, non ci sentivamo turisti ma viaggiatori in­cantati. Il giorno successivo era Sabato Santo. Arrivammo nella piazzetta di Nau­plia. La breve neve di marzo era sparita, un sole glorioso tingeva d’oro le pietre, e noi sentivamo finalmente nelle ossa il calore della trionfante primavera greca. Ma quando le donne, che distribuivano luci­de focacce di Pasqua con un uovo rosso in­castonato sopra e rami di lillà fioriti, si ac­corsero di noi, diedero solennemente a ciascuno una focaccia e un fiore, dicendo: «Christos aniste, Cristo è risorto, ospite. Che Dio ti accompagni». E noi ci sedem­mo a mangiare in pace.

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