mercoledì 18 maggio 2016
Algeria, la conversione di una Chiesa
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Le omelie di padre Christian de Chergé sono preziose. Abbracciano un lungo periodo che va dall’aprile 1980 a pochi mesi dalla sua morte, nel maggio 1996. Anzi, si dovrebbe dire del suo martirio. Infatti le omelie sono i testi spirituali di un uomo che, in qualche modo, sceglie di restare in una situazione sempre più minacciosa. De Chergé era in Algeria dal 1971, nel monastero di Notre-Dame de l’Atlas a Tibhirine, dove era arrivato quando non erano ancora trascorsi dieci anni dall’indipendenza del Paese dopo una dolorosissima guerra di liberazione e l’esodo di gran parte della comunità cattolica algerina. La grande domanda che, dopo il 1962, anno dell’indipendenza, i religiosi e i cristiani algerini si erano posti era se restare o no. Avrebbero condiviso la nuova storia del Paese, come una piccola minoranza. La comunità di Notre-Dame de l’Atlas aveva scelto di partecipare, in una prospettiva monastica, alla ricostruzione della Chiesa cattolica d’Algeria in un mondo divenuto tutto islamico. Lo aveva fatto in una vicinanza particolare all’arcivescovo di Algeri, il cardinale Léon Etienne Duval, il quale era profondamente affezionato ai monaci (infatti la notizia del loro rapimento fu un colpo gravissimo per il cardinale, arrivato alla fine dei suoi giorni). Duval, arcivescovo di Algeri nei tempi dell’Algeria francese, con un profilo che gli valse ingiustamente l’ostilità di tanti suoi diocesani che lo chiamavano Mohammed Duval, aveva desolidarizzato la Chiesa cattolica dal regime francese e dalla volontà degli stessi cattolici di mantenere il governo della Francia nel Paese nordafricano. Aveva da sempre creduto nell’autodeterminazione dei popoli e rispettò la volontà della maggioranza degli algerini per l’indipendenza. Duval aveva sognato, insieme ad altri cattolici, che l’Algeria potesse essere una terra di coabitazione tra la maggioranza musulmana, gli ebrei e i cristiani. Negli ultimi anni della sua vita sentiva l’amarezza del fallimento, ma continuava a credere che si dovesse provare a vivere insieme. Il cardinal Duval rilanciò, nell’Algeria indipendente, una Chiesa povera e umile, tanto diminuita come strutture e funzioni, ma che sentiva d’avere una missione di fede, di amore e di preghiera nella società musulmana. Il monastero di Tibhirine è parte integrante e importante di questo nuovo profilo della Chiesa cattolica in terra islamica. Il cardinale appoggia i monaci e tiene molto alla loro presenza, come – del resto – teneva tanto alle clarisse di Bologhine, vicino a Notre-Dame d’Afrique, ad Algeri, dove risiede lui stesso.  Christian de Chergé è partecipe della scelta dei cristiani algerini, pochi e quasi tutti di origine straniera: restare nel Paese, vivere con i musulmani e non andare via, nonostante l’Algeria degli anni Settanta, Paese islamico e socialista, non sia più quella che la Chiesa ha conosciuto nei lunghi decenni dell’Algeria francese. La retorica delle memorie cristiane dell’antico Nord Africa è spesso servita per giustificare la dominazione francese. Ma la Chiesa, dopo il 1962, è povera di ogni protezione. Resta il grande prestigio del cardinal Duval presso gli algerini, che protegge la Chiesa dall’accusa d’essere stata parte integrante del sistema coloniale. I monaci di Tibhirine sentono di avere una loro vocazione particolare all’interno della Chiesa cattolica algerina: quella della preghiera nella terra dell’islam e del dialogo con i musulmani. Sono gli unici monaci in tutto il Paese e portano la responsabilità di una collocazione così particolare, consapevoli che il mondo musulmano tradizionalmente ha un rapporto di rispetto verso i monaci. A Tibhirine s’investe molto nei rapporti umani e nell’ospitalità. Non è qui il caso di ricordare i legami spirituali e amicali che il monastero intesse con i musulmani di Medea e dei dintorni all’insegna del dialogo. Per i monaci, di stagione in stagione, si rinnova la scelta di restare. Sono tutti non algerini, quindi stranieri (non hanno la cittadinanza algerina come il cardinal Duval), ma sentono sempre più che l’Algeria è la loro patria. Nell’omelia dell’8 agosto 1983 De Chergé cita il monaco di Taizé Max Thurian: «Silenzio, preghiera, condivisione. Condivisione: forse è questo il senso della missione in Algeria? Riconciliazione e misericordia». La «condivisione » è un grande tema della spiritualità di Charles de Foucauld, che ha trovato origine proprio nel deserto algerino e qui è rinata con petit soeur Magdeleine e padre Voillaume. Ma significativamente alla condivisione, già nel 1983, De Chergé aggiunge la misericordia e la riconciliazione in una società, come quella algerina, traumatizzata da una lunga guerra civile, però anche segnata da una forte crescita demografica. L’Algeria ha ferite storiche, ma pure una grande fame di futuro, quella dei suoi tanti giovani. Christian, proprio un giorno dopo la citata omelia, seguendo il filo che probabilmente animava le riflessioni della comunità, continua a meditare sul senso della presenza cristiana e monastica in Algeria. Qui il suo discorso si fa molto chiaro: «Creare ponti e distruggere barriere; preparare qualcosa di nuovo e crederlo possibile... acconsentire al fatto che la nostra sola presenza abbia senso e valore di riconciliazione; percepire la via della riconciliazione verso l’islam». Niente di forzato o imperialistico, ma un umile servizio monastico che vuole «preparare qualcosa di nuovo» all’insegna della riconciliazione con tutti, ma segnatamente con il mondo musulmano.
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