giovedì 28 aprile 2016
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Assimilata tradizionalmente un po’all’artigiano di bottega, un po’ al perito dell’arte, la figura del restauratore di libri e documenti, in particolare, negli ultimi due decenni ha subito radicali trasformazioni, incidendo sugli interventi che sempre più frequentemente ricorrono al supporto delle discipline scientifiche per valutare puntualmente cause di degradazione dei materiali e stato di conservazione. Se non unico, decisamente “di frontiera”, il restauro sul più antico testimone degli Exercitia spiritualia di sant’Ignazio di Loyola, impreziosito dalle note autografe del fondatore della Compagnia di Gesù: già questa particolarità conferisce al libro lo straordinario valore di reliquia, nonostante, al momento dell’esecuzione, fosse stato concepito come oggetto di uso comune, con carta e inchiostro in nulla diversi dai materiali correntemente impiegati a metà del secolo XVI per documenti ordinari, ovvero, carte sottili e inchiostri piuttosto acidi. Quando nel giugno del 2015 per volontà di padre Ignacio Echarte, Segretario della Compagnia di Gesù, e con il sostegno finanziario della basca Fundación Gondra Barandiarán di Guecha in Biscaglia, il codice venne trasferito al laboratorio padovano di restauro, di certo non versava in buone condizioni, essendo stato sottoposto nel secolo scorso a molteplici interventi di riparazione gravemente invasivi proprio nel tentativo di restituire lettura al testo, minata dalla corrosione degli inchiostri aggressivi che avevano perforato numerosi fogli con il rischio di caduta di frammenti di carta. Per sostenere gli strati cartacei si pensò, allora, di rinforzare i fogli con sottili veli di seta usando come adesivo della gelatina animale. Tale trattamento, in effetti, frenò la caduta di frammenti, ma contemporaneamente favorì anche il passaggio dell’inchiostro sulle due facce dei fogli determinando l’interferenza recto/verso della scrittura e peggiorando gravemente la leggibilità del testo. In aggiunta, il trattamento con velo di seta non aveva bloccato l’idrolisi acida della cellulosa provocata dagli inchiostri, anzi l’applicazione della soluzione acquosa calda di gelatina aveva semmai ulteriormente accelerato l’azione cellulosolitica. Il manoscritto, che si inserisce in un contesto storico tanto prezioso, quanto travagliato, poteva essere recuperato solo grazie ad un sodalizio di eccellenze in cui si sono confrontati la restauratrice responsabile dell’intervento Melania Zanetti e i chimici dell’Università di Padova, Alfonso Zoleo e Maddalena Bronzato, già attivi in progetti su materiali librari: l’intero progetto è stato curato da Carlo Federici - docente di conservazione e restauro del libro e del documento all’Università Ca’ Foscari di Venezia e presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia, nonché direttore dell’Istituto di patologia del libro di Romadal 1992 al 2002. L’occhio analitico della restauratrice ha consentito l’individuazione di una serie di specifiche criticità legate soprattutto all’azione degradativa dei diversi inchiostri presenti, la cui acidità è direttamente conseguente alle modalità di preparazione, che dalla tarda antichità sino al secolo XIX- si ba- sava sulla reazione tra solfato ferroso e tannino estratto dalle cosiddette “noci di galla”.  Quest’ultime - essenzialmente escrescenze che si formano sulle foglie e sul tronco di diverse specie di querce in seguito alla puntura di un insetto - sono ricche in tannino, o meglio, in acido gallico, il quale venivasolubilizzato per trattamento delle noci di galla con acqua. Alla soluzione acquosa di acido gallico si aggiungeva una certa quantità di solfato ferroso - il “vetriolo verde” del Medioevo -e ciò determinava la formazione di una sospensione che, dopo ossidazione all’aria, assumeva un intenso colore nero, ideale per la scrittura. Il preparato tuttavia presentava un duplice ordine di problemi: assumeva natura acida a causa dell’acido solforico prodotto dalla reazione tra solfato di ferro e acido gallico e, spesso, eccedeva nel contenuto di sali di ferro, aggiunto in quantità del tutto empiriche. Si liberavano così ioni ferro bivalente che con l’azione ossidante dell’aria si trasformavano in trivalente, catalizzando reazioni di degradazione della cellulosa. I chimici dell’Università di Padova hanno adottato diverse metodiche: l’analisi infrarossa, durante il quale il campione viene debolmente irradiato da una fonte di calore del tutto innocua per la carta, ma capace di fornire informazioni sulla presenza di particolari sostanze quali quelle utilizzate per la collatura; allo scopo di determinare la presenza di metalli pesanti nei supporti cartacei e soprattutto negli inchiostri, si è poi passati alla fluorescenza ai raggi X; infine, è stata applicata l’analisi ai raggi ultravioletti e alla luce visibile in riflettenza per caratterizzare gli imbrunimenti determinati dalla degradazione nel manoscritto ignaziano. Queste analisi, non solo hanno permesso di conoscere lo stato di conservazione dei fogli e la composizione degli inchiostri, ma sono state ripetute durante le numerose fasi dell’intervento per monitorare proprio l’azione degli inchiostri sulla carta. Il controllo in tempo reale delle condizioni del campione ha consentito di procedere con piena co- gnizione di causa, consentendo di separare i fascicoli dalla legatura, per poi allentare la tenacia dell’adesivo proteico in modo sufficiente da rimuovere il velo di seta mediante una cauta umidificazione indiretta, senza cioè mai bagnare la carta, evitando quelle reazioni di attivazione dell’inchiostro che, in passato, avevano già abbondantemente compromesso la leggibilità del codice. Sulla scorta di consolidate procedure, si è inibita l’azione ossidante degli ioni ferro liberi utilizzando gelatina purificata ad alto peso molecolare. Restava tuttavia il problema di neutralizzare l’acidità degli inchiostri che permaneva a livelli elevati con valori di pH oscillanti tra 4 e 4.5, evitando però qualsiasi effetto di idratazione: di norma, infatti, la deacidificazione avviene con soluzioni acquose di bicarbonato di calcio, ovvero con sali debolmente alcalini. Ulteriore brillante intuizione ha suggerito il riferimento alla recente comparsa di studi sull’applicazione di nanocomposti al restauro librario: un secondo gruppo di chimici dell’Università di Firenze, coordinato da Piero Baglioni, ha messo a punto una sospensione di nano-idrossido di calcio in alcol isopropilico adatta al trattamento del manoscritto. Valutando il rischio che l’elevata alcalinità di questo composto avrebbe comportato, vista l’alta sensibilità delle carte ossidate a tali trattamenti e l’opportunità che ilpH non superasse la soglia di neutralità, si è sperimentata l’applicazione del nano- idrossido monitorando i valori di pHad ogni passaggio e ripetendo le applicazioni fino a raggiungere valori di pH pari a 6.5-7. Si è quindi completato il restauro delle carte, rinforzando quelle più compromesse con un velo giapponese estremamente sottile -della grammatura di 2 g per metro quadrato contro gli 80 della comune carta da fotocopie -ma prodotto con fibre lunghe e resistenti ricavate dalla lunga e complessa lavorazione della corteccia del gelso da carta, il kozo giapponese. Il prezioso manoscritto è rientrato infine presso l’Archivum Romanum Societatis Iesunuovamente legato nella sua coperta novecentesca, pronto ad affrontare il futuro e ad essere trasmesso alle generazioni che verranno.
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