martedì 28 aprile 2015
In Sicilia sono arrivati dall’inizio dell’anno 2.100 minori, di cui oltre 1.400 non accompagnati (Claudio Monici)
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Non raccolgono fiori al lago di Pergusa, ma riempiono bottiglie d’acqua attingendola dalla fontana, per bere e per lavarsi. Ci vivono, a ridosso della monumentale opera scultorea rappresentante il soggetto mitologico del "Ratto di Proserpina", che sorge accanto alla Stazione centrale di Catania. Ci trascorrono le settimane, i mesi distesi su quel prato, guardando i treni che puntano verso la terraferma, l’Italia. Sono per lo più eritrei e somali, e sospirano un desiderio: Europa del Nord. Ogni tanto qualcuno ce la fa a raggiungere la meta, ma molti altri si trasformeranno in prede ricercate dal Male, e per le statistiche diventano degli "invisibili". E non se ne saprà mai più nulla.Vite rapite e oltraggiate da un re degli inferi, bramoso di danaro in cambio di un viaggio sul filo della morte, di una falsa promessa: vite di esseri, per lo più ancora dei ragazzi, che nulla hanno a che vedere col phatos mitologico. Qui non c’è una primavera, ma molta solitudine e tanta violenza, e davanti al viaggio, che ancora non è giunto al suo capolinea, resta spalancata una strada irta di pericoli, anche di traffici indicibili.«Questa zona è diventata punto di riferimento per molti migranti del Mediterraneo che lasciano i centri di accoglienza per continuare la loro odissea». Intanto che Valentina Calì, assistente sociale del Centro d’aiuto della Caritas presso la stazione centrale, ci racconta del suo lavoro, alla finestra bussano due ragazzi somali, avranno si e no 16 anni. Chiedono scarpe.«Tutti i giorni è così. Bussano alla nostra porta e la Chiesa, si sa, va dove le Istituzioni non arrivano. Cerchiamo di aiutarli come possiamo. Dal vestiario al cibo, grazie anche a una bella solidarietà catanese. Con l’aiuto di una ventina di volontari, che cambiano ogni giorno, Salvo Pappalardo, il nostro responsabile della mensa, sette giorni su sette sforna 500 pasti. Il 60 per cento di chi bussa alla nostra porta sono i migranti, il resto gli italiani. La povertà non finisce mai. Anzi, aumenta giorno per giorno», sottolinea don Piero Galvano, direttore Caritas di Catania.Il tempo di controllare la misura delle scarpe e i due giovani somali si dileguano rapidamente, per tornare nell’ombra da dove sono sbucati.Dall’inizio di questo 2015 sono già più di 25mila i migranti sbarcati in Sicilia,  2.100 sono minori, tra i 14 e i 17 anni, di cui oltre 1.400 non accompagnati. Anche bambini di 9 anni.E proprio loro sono l’anello debole e più fragile della migrazione mediterranea. Perché il pericolo di finire nei traffici di demoni senza scrupoli è più che concreto: che fine hanno fatto i 3000 giovani invisibili che lo scorso anno si sono dileguati da comunità e centri di accoglienza?«Una cifra che si considera sottostimata, rispetto alla realtà. Somali ed eritrei, ad esempio, hanno ben chiaro il loro obiettivo, raggiungere i Paesi del nord Europa dove ricongiungersi ai famigliari o parenti.Ma la strada è lunga e il pericolo di cadere vittime di ogni sorta di traffici esiste. Ad esempio, ai Mercati generali di Roma, sono stati scoperti ragazzi egiziani costretti a lavorare 12 ore al giorno. Sfruttati per due euro all’ora. Per resistere alla fatica e alla fame, annusavano colla e abusavano di farmaci», racconta Giovanna Di Benedetto, portavoce di "Save the Children".Attraverso i racconti emergono storie sconvolgenti, che segneranno per sempre la loro vita ed anche per questo «che in determinati casi, individuati soggetti vulnerabili occorrerà individuare strutture di accoglienza adeguate».Ma cosa potrà mai portare dentro di se stesso un bambino di nove anni che, solo, è stato affidato a un viaggio dentro gli inferi, pur di dargli l’opportunità di una vita migliore in fuga da una guerra, dalla fame, prima di avere raggiunto le nostre braccia?«Nell’ultimo periodo attraverso i racconti che raccogliamo, stiamo riscontrando un aumento delle violenze. Violenze subite o viste infliggere con atrocità. I loro racconti sono terribili, impregnati di orribili episodi e abominevoli comportamenti che accadono nei centri di detenzione in cui vengono trattenuti prima di essere caricati sui barconi – racconta Giovanna Di Benedetto -.Non basta che fuggono da persecuzioni e sofferenze, ulteriori patimenti sono costretti a subirli nella Libia fuori da ogni controllo. Sono considerati solo della merce di scambio e non più esseri umani. Della roba da maneggiare per fare soldi. Ricordo il racconto di un ragazzo somalo di 16 anni. Quando mise piede in Libia, le prime parole che gli vennero rivolte furono: "Benvenuto all’inferno"».
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